Bereshìt
ovvero : perché non dirsi Creazionisti
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In principio Dio creò i cieli e la terra.

In principio Dio creò (in ebraico: Bereshìt barà Elohim).
Con questo incipit comincia il racconto della Creazione, con cui inizia il Libro della Genesi (dal greco: origine), primo dei cinque libri del Pentateuco, principio e fondamento della Torah e della Bibbia.

Tutto, dunque, inizia dal principio. E non esiste un “prima”.

L’atto iniziale è la creazione dei cieli e della terra. Creazione insieme del Tempo e della Materia. E, immediatamente dopo, della Luce.
E con questo, termina l’atto proprio della creazione. Cioè, della generazione della materia, dell’energia, del tempo, a partire dal nulla. Nei versetti seguenti infatti non si usa più questo verbo, “creare”, fino alla nascita dell’Uomo.
Prima che finisca il primo giorno, Dio inizia l’opera di organizzazione sistematica del Creato: cioè “separa” la luce dalle tenebre, e dà nome ad entrambe; “e fu sera, e fu mattina: e fu il primo giorno”.

Mi piace molto questo concetto di “separazione”, di differenziazione; è il riconoscimento di una diversità e di una complementarietà tra realtà differenti, che prima erano parte di un informe senza qualità e senza nome; e che dopo si identificano, ciascuna nel contrario dell’altra; e si alternano, e si attraggono, e si completano a vicenda.

È un'idea straordinariamente simile alla descrizione della Creazione ed alla concezione dell’Universo secondo la filosofia Taoista. L’astratto, l’assoluto, il Tao, non è immobile ma è esso stesso un cammino; è un informe senza una meta ma in continua Evoluzione, che genera per “separazione” entità diverse.
Il movimento è l’unica forma di esistenza. Ciò che non cambia, è falso.

Il racconto della nostra Genesi prosegue, come tutti sanno, sviluppandosi in una successione di eventi e di giornate, durante le quali Dio “separa” le acque dall’asciutto, il sole dalla luna; e favorisce la nascita della vegetazione dalla terra e dall’acqua appena separate. Insieme erano sterili; separate, generano.
E poi di ogni specie di animali; dando a ciascuna specie vivente la capacità di generare seme, di riprodursi; insomma, di pro-creare (creare per delega).

È una successione logica e cronologica, di organizzazione delle entità astronomiche prima, di quelle geologiche poi; di un lento ed ordinato sviluppo della vita, dalle sue forme più semplici a quelle più complesse. E ogni nuova forma, minerale, vegetale o animale, che va popolando l’Universo, Dio la osserva, se ne compiace. Ne da un giudizio, le da un nome, le assegna un compito.

Tutto questo fino al venerdì pomeriggio, al termine della Creazione, quando finalmente stabilisce di far nascere l’Uomo, al quale vuole affidare la responsabilità di portare la sua immagine.
Attenzione: non crea l’uomo maschio, di nome Adamo. Niente affatto. Il testo dice invece (Genesi cap.1, v.17) “Dio creò l’uomo a sua immagine; lo creò a immagine di Dio; li creò maschio e femmina.

Per quelli che hanno in mente la raffigurazione Michelangiolesca del Dio che infonde vita nel corpo di Adamo (e di Adamo soltanto) mediante l’alito o il tocco delle sue dita flosce, qui è necessaria una precisazione importante, senza la quale non si può intendere ciò che segue.

Quello che viene chiamato “il racconto della Creazione” si sviluppa nei capitoli 1 e 2 del Libro della Genesi. Ma in verità, non è un unico racconto. I racconti sono due, e sono ben differenti. Il primo impegna tutto il capitolo 1 e tracima nel capitolo 2, occupando i primi tre versetti. il secondo racconto inizia dal v.4 fino al termine del cap.2.

I due racconti non si integrano a vicenda, come è stato più volte maldestramente tentato. Sono diversi nello sviluppo temporale degli eventi che descrivono, ma soprattutto nello stile narrativo e nelle finalità. Chi non mi crede può verificare da sé; apra la Bibbia alla prima pagina, e inizi a leggere.

Io talvolta lo faccio. Non spesso, ma quando ho da verificare qualche circostanza, qualche ricordo non preciso; la apro e cerco il testo. Ho una Bibbia con me. Ne ho sempre avuta almeno una copia in casa.

Mia madre ne conservava una antica della sua famiglia. Era un testo tradotto dal Diodati nella lingua italiana secentesca: un linguaggio arcaico che faceva di quel volume di pagine fitte e finissime, rivestito di una lugubre lucida pelle nera, un testo fragile da toccare e impenetrabile. Credo che il Diodati sarebbe stata una splendida lettura per Dario Fo. Provai una volta a suggerirglielo, durante un incontro nel cortile della Scuola Normale, anni fa. Ma il mio consiglio cadde nel mezzo di mille altri, e andò perduto.

Quella che ho con me è una traduzione “riveduta” del Luzzi, stampata nei caldissimi anni ’60, rilegata in tela azzurra e firmata dal Pastore con dedica, nel giorno della Confermazione, con timbro tondo della Chiesa del Vomero, a Napoli.

Ma qualsiasi altra traduzione voi leggiate, non potete che convincervi, con me, che i racconti sono due, diversi, inconciliabili.
Nel secondo racconto si perde ogni grazia ed ogni ordine poetico.
Dio compie tutto in un unico giorno, e lo fa in modo del tutto differente...

Nel secondo racconto, il Creato era in principio un deserto senz’acqua. Bereshìt.

Bereshìt è il nome di una località nel deserto del Negev, in Giudea; affacciandosi sul precipizio, al margine di un cratere generato da un antico meteorite, la roccia nella arida valle si presenta nuda di ogni e qualsiasi forma vivente; e mostra attraverso la diversità dei suoi colori caldi e asciutti le sue sofferte complessità geologiche.

Bereshìt, in principio. Il Deserto inospitale fu quindi per prima cosa inondato di pioggia. Ma Dio si accorse che questa non bastava per generare la vita, perché mancava chi coltivasse la terra. Dunque, in questo secondo racconto, la natura non può esistere da sé ma soltanto se viene lavorata. Questa è l'esperienza di chi è sempre vissuto nel deserto, che è molto diversa dalla sensibilità che emerge dal primo racconto; e differente dalla nostra, oggi propensi a pensare che la natura vivrebbe meglio senza dover "sostenere" il peso delle attività umane...

Nel racconto, non avendo la pioggia avuto l'effetto desiderato, come atto successivo, dalla polvere umida Dio modellò l’Uomo, maschio, di nome Adamo; di quest’uomo non viene riferita alcuna eventuale somiglianza col suo Creatore. Poi Dio soffia nelle narici di Adamo lo spirito vitale e lo pone in un giardino, bagnato da quattro fiumi.

Successivamente, come un padre che voglia accattivarsi il suo primogenito appena nato, Dio inizia a creare per Adamuccio suo nell’Eden d’infanzia ogni specie vegetale ed animale, e glie li porta a far vedere, e glie li regala perché ci giochi, e lo stimola a dare a ciascuna un nome.

Ma Adamo non è soddisfatto; la creatura non mostra attenzione, si agita, si stanca presto; nessuna cosa sembra dargli compagnia. È un tantinello depresso, e questo dispiace a Dio. Perciò, alla fine, per ripiego, Dio forma la donna (un pessimo affare, come il seguito dimostrerà). E non lo fa modellando la stessa polvere usata per Adamo, ma la genera dal corpo stesso di lui, usando un pezzo della sua carne; anzi, per la precisione, del suo scheletro.

Due racconti; due opposte rappresentazioni cronologiche (e logiche) degli eventi. Due differenti finalità. Ripeto: inconciliabili.

Io ho osservato, leggendo, queste differenze tra i due racconti della Creazione. E poi ne ho cercato conferme; così ho appreso che il filosofo Baruch Spinoza, di genitori ebrei convertiti al Cristianesimo, fu il primo a pubblicare (in forma anonima) le sue osservazioni sulla inconciliabilità dei due racconti.

Oggi la esegesi (esame critico) dei testi della Bibbia ha definito con chiarezza queste diversità tra i due testi (e tra altri che sono tutti raccolti nel nucleo iniziale della Torah) e le ha classificate. Quindi adesso si definisce “Eloista” il primo racconto e “Jahvista” il secondo.
Le due definizioni discendono dal diverso nome (El, rafforzato nel suo plurale Elohim; e Jahvè) che appare nei due racconti, di Colui che oggi indichiamo con l’unico nome di “Dio”.

El è lo spirito che aleggia sopra le acque durante la Creazione. El è il primo nome ebraico di Dio, e sta alla radice di molte parole e di nomi, come: Ariel, Daniel, Elizabeth, Ezekiel, Immanuel, Israel, Samuel; e soprattutto quelli degli Arcangeli: Gabriel, Michael, Raphael.

Jahvè invece è il nome di “colui che è”. Che esiste, che è materiale, che passeggia per l’Eden, che si azzuffa una notte intera con Giacobbe lussandogli l’anca, che patteggia un accordo con le tribù di Israel.

Come si spiega che due racconti con caratteri così diversi stiano insieme? Rabberciati l’uno all’altro, congiunti forzosamente all’interno del capitolo 2, come per dare intenzionalmente una continuità che non hanno affatto?
Attenzione: non sembri sacrilego quello che scrivo. Da nessuna parte si afferma infatti che la Bibbia sia “Parola di Dio”. A meno che nei brani espressamente virgolettati, come si usa anche nel corretto linguaggio giornalistico. La Bibbia è come un giornale: una rappresentazione umana dei fatti, che risente della sensibilità, della capacità di comprensione e di descrizione dei diversi testimoni. E che va letta criticamente; come il tuo giornale, appunto, del quale (nel suo complesso) hai fiducia.

Tornando al racconto della Creazione, la Genesi -e tutta la Torah, secondo la tradizione ebraica (e molte confessioni cristiane), sarebbe stata scritta da Mosè in persona. Che l’abbia scritta lui, o altri, tutta insieme o in tempi differenti, è comunque evidente che si tratta di un’antologia di racconti che hanno provenienze differenti.

È stata dimostrata l’evidente similitudine di molte narrazioni della storia antica dell’Umanità, contenute nel Libro della Genesi, con quelle che ci provengono dalle civiltà Assira e Babilonese; e più ancora da quella Sumera. Non stupisce affatto: il Padre Abramo, Patriarca del Popolo di Israele e fonte di ogni tradizione, proveniva dalla Città di Ur, e lì aveva studiato…

E più ancora, consentitemi una digressione in un contesto lontano: in un piccolo e grazioso paese nella provincia dello Yunnan ("a sud delle nuvole", in Cinese), a Lijiang.
Laggiù, nel mezzo di un parco, ho visitato un armonioso centro culturale dove è stata raccolta (ed in parte è in mostra) una immensa collezione di antichi manoscritti su carta di riso, compilati nella lingua e nell’alfabeto pittografico Dongba, oggi letti e interpretati soltanto da poche decine di persone; che alloggiano tutte presso lo stesso Centro, per farsi fotografare nel cortile e presso la riva del fiume dai turisti, rivestiti delle tuniche ricamate e coloratissime e coi loro copricapo d’argento e lunghe piume di fagiano; fissi nei gesti ieratici dei fumatori di pipa o mobilissimi, nelle danze apotropaiche delle signore.

Ma, più utilmente, passano le giornate nel Centro seduti ai loro scrittoi, pennello in mano, per trascrivere in cinese moderno quegli strani segni che ci tramandano racconti millenari. Sono storie incredibili e straordinarie. Non è possibile ascoltarle tutte; e non tutte sono ancora leggibili... A me ne è piaciuta una, raccolta casualmente nel mucchio. Narra di un Patriarca, la cui famiglia si salvò da un Diluvio, portando in salvo piante ed animali; e dei suoi tre figli, i quali, stabilitisi poi nella terra dei "quattro fiumi" (Sichuan, in Cinese), diedero origine alle tre stirpi in cui è divisa l’Umanità: i bianchi Bai, i Naxi blu, e i Tibetani, sempre vestiti di nero.

A me questa storia è sembrata familiare. E a voi?

Io non credo sia per caso, né per malafede, che Mosé (o un anonimo rabbino molti secoli dopo), nel riportare per iscritto ciò che (secondo la sua sensibilità e le sue capacità narrative) riteneva fosse il racconto dell’Umanità tramandato a voce, abbia dato credito a ciò che ascoltava provenire da molte e diverse fonti… Ma i racconti non sono tutti coerenti tra di loro; e non basta cucirli insieme in un solo Canone, per farne un’unica storia.

Dalla massa informe della cultura preistorica tramandata oralmente, nell’atto della “creazione” di un Canone Biblico scritto, si “separarono” due (diversi ed inconciliabili) racconti della Creazione Universale. Questi si alternano e si attraggono, ma purtroppo non si completano né si congiungono a formarne uno solo.

E i Creazionisti, dunque? In quale dei due racconti credono?
Non si può prestar fede a tutti e due.

Io ho fatto la mia scelta.
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E adesso bisogna proprio che vi dica da dove nasce questa indagine, che mi ha portato alla rilettura critica dei due primi capitoli del Libro della Genesi, alla verifica delle mie ipotesi esegetiche, e ad una mia personale conclusione, alla quale arriverò tra breve.

Tutto nasce da una discussione a cui ho assistito, sull’atteggiamento misogino dell’Apostolo Paolo, e sull'influenza di questo sulla considerazione della donna nel Cristianesimo. Alla base, sono le affermazioni riportate nella Prima Lettera ai Corinzi. Al cap.11, nei vv. da 7 a 9, Paolo scrive: “Poiché, quanto all’uomo, egli non deve velarsi il capo, essendo immagine e gloria di Dio; ma la donna è gloria dell’uomo; perché l’uomo non viene dalla donna, ma la donna dall’uomo; e l’uomo non fu creato a motivo della donna, ma la donna a motivo dell’uomo”.

Fin qui le evidenti e tragiche conseguenze generate in quel poveruomo dalla lettura del secondo racconto della Creazione, che Paolo prende integralmente per buono, stralciando dal primo racconto solo l'informazione circa la “immagine e somiglianza” che però attribuisce al solo Adamo, mentre nel testo, come abbiamo visto, si riferisce invece con evidenza alla coppia, e non al singolo.

Poi, al successivo versetto 12, Paolo rimedia, ed ha come un fugace ripensamento: “siccome la donna viene dall’uomo, così anche l’uomo esiste per mezzo della donna, ed ogni cosa è da Dio.” Una piccola concessione. Ma non da poco, dati i tempi in cui vive Paolo -secondo quanto affermava nella discussione uno dei dotti interlocutori.

Ovvero, dati i tempi, non fu per Paolo cosa da poco ammettere e scrivere che, sì, il fatto evidente che miliardi di uomini e di donne siano nati e continuino a nascere sempre e soltanto dal corpo della donna, è un fatto che può essere “quasi” equiparato a quell’unico atto di generazione della prima donna dal corpo del suo uomo.
Un episodio, peraltro, rimasto unico e senza testimoni...

E oggi, in quali tempi viviamo? Può ancora considerarsi lungimirante illuminismo, questo di Paolo? È ancora, di questi tempi, giusto insegnare per tempo a tutti bambini e le bambine la storia di questa nascita della donna dal corpo dell’uomo, prima che possano apprendere con evidenza che da sempre avviene l’opposto?

Da questa riflessione sono partito per rileggere le prime due pagine della Bibbia, su cui Paolo fonda le sue affermazioni; per trovarci con mia sorpresa ciò che ho esposto e mai prima avevo compreso.

E giungo infine alle mie conclusioni.

Al di là della diversa sequenza narrativa, e delle opposte intenzioni (o paure) che sono dietro le due differenti descrizioni, io voglio soffermarmi a considerare e condividere l’immagine che trasmettono, di El e di Jahvè.

Il secondo è certamente virile, risoluto, materiale, pratico, diretto, inquieto, impaziente.
Il suo racconto è arido, come il deserto dei sentimenti nel quale vive.

Quanto all’immagine di El (o meglio, del suo plurale, Elohim), trasmette un’evidente armonia interiore. Il tessuto della sua creazione è un’opera manuale, che richiede pazienza, perizia, metodo ed attenzione.
Pazienza, capacità di attesa, giorno dopo giorno, dando il giusto tempo ad ogni azione; perizia e cura nel maneggiare gli elementi; metodo e ordine, nel disporre le relazioni tra ogni singolo prodotto; attenzione per ogni singola creatura, che viene realizzata, osservata, apprezzata, e infine inserita nel contesto. E attenzione per sé stesso, a cui dedica infine il settimo giorno, di riposo.

A me, questa recente rilettura della prima pagina del Libro della Genesi ha suggerito l’immagine di una giovane donna, con camicetta a fiori e gonna a pieghe, grembiale, cuffia sulla testa, seduta sulla sua seggiola di legno in una fattoria nelle campagne di Lancaster, in Pennsylvania, che prepara la trapunta (quilt) per il suo letto nuziale.

Un’impresa lunga, che consiste nel cucire assieme pezzi di stoffa diversi per colore, forme e fantasia; e nella quale ogni singola impuntura ha la stessa importanza del risultato finale.

Chi ha pratica, o soltanto ha assistito a simili lavori manuali, sa quante volte un piccolo errore di taglio, o di cucitura, o nella scelta di un singolo pezzetto, magari scoperto con ritardo, impone di scucire intere parti del lavoro, di riportare la "creazione" ad uno stadio anteriore. Per riprenderla poi senza incertezze e senza rimpianti, nella perfezione del suo armonico disegno unitario, dove nessuna parte resti inadatta al contesto.

Ed il lavoro, tra le mani di Elohim, fatto con amore e per desiderio di amore, prende forma ed immagine dal suo creatore, che gli trasmette soprattutto la sua capacità di proporzione, di equilibrio. Di bilanciamento e di collaborazione tra diversi elementi.

Una simile immagine della lunga e laboriosa e mai terminata azione della creazione a me sembra compatibile anche con le teorie di Darwin.
Potremmo dirci Creazionisti, non credete?
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Ecco. Termino con un auspicio.
A me piacerebbe conoscere finalmente un Adamo che apprezzi la trapunta sulla quale è cucito, e ne intraveda l’armonia; che non cerchi di dare il suo “senso” alle cose, ma accetti di esserne una parte collaborativa; che non sia costretto a manipolare il racconto della Creazione per mistificare le sue origini.
Che accetti serenamente il suo ruolo nella pro-creazione, senza illudersi o pretendere che la donna lo svolga per sua delega.

Che insomma liberi la sua mente e la sua cultura dalla schiavitù della penosa, rabbiosa e violenta invidia dell’utero (Sigmund, te lo dico con amicizia: non ci hai mai capito niente!).


Bereshìt barà Elohim...

Santiago del Cile, 4 novembre 2013, nel giorno settimanale del riposo




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