di ritorno da San Francisco
ovvero: chi penzola dal Pendolo di Foucault?
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Il Pendolo di Foucault (1988) è il secondo romanzo di Umberto Eco, dopo il più famoso e (a mio parere) non superato Nome della Rosa (1980).
Di quel primo romanzo si può quasi considerare un "sequel", essendo intriso, come l'altro, di complotti, religione, segni, libri, e tanto Medio Evo. Come l'altro, si presenta come un trattato enciclopedico, nel quale la trama si assottiglia e si frammenta.

In estrema sintesi narra di un contesto contemporaneo, nel quale il sapere occulto è ancora di interesse, come lo era ai tempi di Guglielmo di Baskerville. Alcuni eruditi curatori letterari, nel retrobottega di una grossa casa editrice (come fosse la Biblioteca di Jorge da Burgos), confezionano libri per ogni sorta di autore e argomento; talvolta, anche occultismo. Credendo di potersi prendere gioco di questi fanatismi, si inventano (ed elaborano) la complessa trama di un complotto, della quale restano vittima essi stessi, essendo incapaci di mantenerne il controllo.

Con evidenza Eco mette in luce come, in quei decenni del secolo scorso che stavamo vivendo, il complottismo fosse una componente della società e della cultura italiana, e permeasse pensieri ed azioni in certi ambienti della politica e della finanza.
Il Pendolo è un romanzo "luminoso su un mondo sotterraneo", come afferma Le Goff.
O, meglio, come più argutamente osserva Asor Rosa, un libro sui misteri della fine del XX secolo, dal quale si comprende che la storia raccontata da Eco non sia ancora finita...

L’Autore colloca nel 1984 l’episodio che gli ha ispirato il romanzo.
Concordo sulla data; ma, per qualche motivo che si comprenderà dalla lettura, non credo sia stato sincero fino in fondo. Per comprendere quale preciso evento del 1984, io penso, abbia scatenato la fantasia dello scrittore, spingendolo a scrivere una storia medioevale ambientandola in un mondo contemporaneo, è illuminante la citazione di apertura che lo stesso Eco ci offre: "ciò che abbiamo occultato in un luogo, l'abbiamo manifestato in un altro, affinché possa essere compreso dalla vostra saggezza" [De Occulta Philosophia, H.C.Agrippa von Nettesheim].


... con questo racconto ho cercato di ripercorrere, come fosse una passeggiata urbana, lo sviluppo di un ragionamento che è seguito alla lettura del romanzo di Eco; il percorso mi portò a svelare quella che credo sia stata la sua vera ispirazione.
la riflessione è dell'ottobre 1989; ma l'ho fissata sulla carta nel 2004, nel ventesimo anniversario (ricordato con enfasi anche dai giornali) di quell'evento del 1984 che (a mio parere) il romanzo trasfigura.
E poi l'ho rimaneggiata oggi, nel pubblicarla qui.

Ogni riferimento a fatti, personaggi e situazioni della recente storia d'Italia è assolutamente reale ...





La mia prima volta a San Francisco fu nel 1989. Era d’Ottobre.
In quell’occasione (durante una notte, lungo i moli del Fisherman’s Warf) maturai l’epilogo con cui ho chiuso il racconto “Napolitiamo”. Sempre d’ottobre, l’anno precedente, in un (per me) magico ottobre caprese, era nata l’ispirazione di quella narrazione. Sulla carta, fu partorito anni dopo. È vero: la mia gestazione è sempre molto lenta.

L’autunno è una stagione mite, a San Francisco, e quell’89 non fu diverso.
Sicché, nel volo di rientro, atterrando di mattina presto per uno scalo a London Heathrow, ero in maniche di camicia, e la differenza di clima fu apprezzabile.

Altro brusco cambiamento, fu quello del fuso orario. Otto ore!
Il cambio d’orario che trovo più fastidioso è quello nei voli da Ovest verso Est. Il rimedio che adotto, e che consiglio, è quello di esporsi a lungo alla luce del sole, appena rientrati in Europa: per riabituare il corpo al ciclo del giorno. Per questo, avevo scelto un volo con scalo ed una sosta molto lunga a Londra. Intendevo riabituarmi al fuso passeggiando alla luce naturale della mattina (quando l’orologio interno si sarebbe atteso che fosse ancora notte).

Il mio programma è: Underground Blue Line fino a South Kensington; poi a piedi attraverso la City of Westminster e poi la City di London, fino al Tower Bridge.
Infine, pranzo in un pub in Tower Hill e rientro ad Heatrow (Circle Line + Blue Line).
Inizio a seguirlo alla lettera.

Arrivato alla stazione di South Kensington, dopo un’occhiata ai giornali europei esposti nell’edicola sotto il loggiato, via, verso il Natural History Museum. Il portale biforo in stile romanico, in pietra rosata, è ancora chiuso (i musei aprono a mattinata inoltrata); e comunque, non avrei il tempo per rendere omaggio allo scheletro di dinosauro e alla fetta di sequoia nell’androne.

Quindi via, lungo i Cromwell Gardens fiancheggiati dalle tipiche casette unifamiliari bianche, tutte con l’uscio di smalto lucido in colore vivace, oltre la loggetta che fa da ponte sullo stretto cortile interrato, su cui affacciano le finestre dei vani sottostrada.

E poi lungo la Brompron Road, costeggiata da palazzoni commerciali. Il più notevole di tutti è quell’accozzaglia di stili architettonici che contiene i Magazzini Harrod’s; sull’angolo sfoggia(va) oltre l’insegna, anche gli stemmi dei monarchi che si onora(va)no di esserne clienti.
Una sosta al settore food è d’obbligo. Giusto per prelevare qualche souvenir…

Reso il doveroso omaggio alla marmellata d’arance, la mia strada prosegue lungo gli empori ed i pub di Knitsbridge, verso l’Hyde Park Corner.
Il Parco si intravede, oltre il colonnato con capitelli ionici. Nel mezzo della rotonda, su una bassa collinetta erbosa, il carro alato della Vittoria troneggia su un arco con capitelli corinzi. Pacchiana “compilation” di storia e stili. Molto “British”…

Rinuncio ad allungarmi verso la Victoria Station ed il teatro Old Vic, e proseguo lungo Constitution Hill, tra il Green Park e i Giardini di Buckingham, fino alla cancellata nera con le punte dorate che racchiude la facciata di Palazzo Reale.

Oramai, manca poco più di mezz’ora al cambio della guardia. Decido di fermarmi ad aspettare, insieme alla folla che si sta formando. Arriva il corteo, aperto dai gurkha nepalesi. In un’ora è tutto finito, compresi gli interminabili duetti tra la guardia smontante e quella montante.

Però oramai è mezzogiorno. Comincio a rendermi conto che il tragitto che ho immaginato è troppo lungo per essere completato nel tempo che mi resta. Mi affretto lungo il Mall, ornato di vestigia dell'ormai antica potenza marinara, non senza una piccola deviazione sui prati e sotto i tigli spogli del Sant James Park, dove scoiattoli senza paura né ritegno mi elemosinano provviste per l’inverno che arriva.

Sono vestito in modo assolutamente inadatto a questo sole pallido; il freddo mi prende, l’umido si infiltra; mi contagiano un senso lugubre, nebbioso, grigio di malinconia.
È con questo senso fisico di mestizia addosso che, varcato l’Admiralty Arch e la colonna di Trafalgar Square, arrivo finalmente allo Charing Cross. Alzo gli occhi, e mi sovrasta la chiesa di Saint Martin in the Fields. Sembra un piccolo Partenone con base irregolare, al quale spunta dalla testa un goffo campanile piramidale, come fosse un corno spigoloso sul muso di un rinoceronte...

Sono proprio nel mezzo del trivio; punto di scelta, spazio mistico e diabolico della cultura antica. Secondo Virgilio, il luogo dove si adorava (anzi si evocava ululando) la dea della luna, levatrice e accompagnatrice dei morti.
E questo “crocicchio” di Charing Cross è proprio il penoso luogo di una scelta, di un trapasso: è il varco tra la rigogliosa e vivace City of Westminster, con la Cattedrale e le Houses del Parlamento e la torre del Big Ben, verso il fiume alle mie spalle; e l’austera e triste City of London, che da qui, fino alla lugubre Torre abitata dai corvi e dal ricordo di efferate esecuzioni, si distende bieca lungo lo Strand, alla mia destra.

Torno a guardare la chiesa. Già la prima volta che l’avevo incontrata, anni fa, mi aveva colpito il suo nome, Saint Martin in the Fields: San Martino in Campo. Perché in campo? Sono debole in vite dei santi. In quale campo stava, San Martino? Un campo di battaglia, come il paldino Rinaldo?
Oppure quello in cui incontrò il povero ignudo, al quale donò metà del suo mantello?
E poi, se quell’elemosina gli valse la santità, quale è stato il maggior valore del suo gesto: l’essersi privato di mezzo mantello di stoffa preziosa, oppure quello di averlo distrutto, tagliandolo a metà?
Misteri dell'agiografia!...

Comunque, quello strano nome oggi non mi è più tanto estraneo. Pochi mesi prima ero andato a vedere, di proposito, la piccola “Saint Martin des Champs”, a Parigi.
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Nei giorni di preparativi per il Natale 1988 ero a Parigi, con la sorella e i miei nipoti piccoli.
Giorni di festa che precedevano la festa. E Parigi aveva quella sua inconfondibile aria vivace, appropriata all’attesa di gioia. In centro, le innumerevoli vetrine dei grandi magazzini erano immensi e luminosi teatri di bambole e di giocattoli animati. Era uno spasso esaminarli, uno per uno, tutti diversi. Ed era uno spasso ancora maggiore guardare i bambini. Attoniti, di fronte a tante meraviglie.

Pochi giorni prima, avevo letto “il Pendolo di Foucault”, secondo ed attesissimo romanzo di Umberto Eco, fresco di stampa. Purtroppo (per me) deludente, se confrontato a quello di esordio. Era stata una sofferenza percorrere tutte le 501 pagine del libro, inseguendo la trama districandomi tra l’uno e l’altro lemma di quel trattato enciclopedico sulla simbologia medioevale.
Non che a me dispiaccia, sfogliare enciclopedie; per il puro piacere della raccolta. Ma lo faccio in un orto ben arato, in un frutteto di filari ordinati. Non mi piace invece addentrarmi in mezzo alle ortiche cercando il buono, senza sapere come riconoscerlo.
Quindi avevo, per sfida con me e con l’autore, portato in fondo ed alla svelta quella lettura.

L’azione si svolge in un contesto contemporaneo, nel quale il sapere occulto (come ai tempi in cui è collocato “il Nome della Rosa”) è ancora di interesse; tra notizie di complotti, religione, delitti, segni, scritture, e tanto Medio Evo. In estrema sintesi, la trama è questa: tre eruditi curatori letterari, nel retrobottega di una grossa casa editrice, confezionano libri per ogni sorta di autore e argomento; talvolta, anche di occultismo.
Credendo di potersi prendere gioco di questi fanatismi, si inventano (ed elaborano) la complessa trama di una cospirazione, della quale restano vittima essi stessi, essendo incapaci di mantenerne il controllo.
Un intrigo di per se avvincente; ma, come ho già detto, la lettura scorre a stento, dovendo il lettore destreggiarsi tra voluminosi saperi, sparsi sul suo cammino.

L’epilogo è drammatico. Tutti, uno per uno, finiscono uccisi, vittime del proprio inganno.
Il primo, soffocato dalla sua psicosomatica. L’ultimo, che è l'io narrante, lo lasciamo in ultima pagina, mentre attende i suoi carnefici.
La morte più spettacolare, che dà il titolo al romanzo, è quella del personaggio centrale, Belbo, che viene “suicidato” per impiccagione alla corda del pendolo, nel piccolo museo adiacente alla chiesa di Saint Martin des Champs, a Parigi.
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Ed eccomi piuttosto a Londra, davanti alla chiesa omonima.
Di simile a quell’altra, ha solo il nome. Questa è spoglia, lineare, austera, quanto la prima è gioiosa e rigogliosa. Difatti, quando ero andato a ricercarla tra le stradine della capitale francese (prendendomi una pausa dallo shopping natalizio), mi aveva stupito. Non sfoggiava nessuno dei tetri simboli massoni ed occultisti, raccontati da Eco nel romanzo. Anzi, il suo sagrato, arredato con alberelli e panchine, mi era sembrato un posto più adatto alla passeggiata dei nonni e alla sosta di giovani madri allattanti, che un luogo di oscura macchinazione o la scena di un delitto efferato.
Più adatta questa londinese, al ruolo!...

Di colpo, immagino una trasposizione degli elementi del romanzo. E li ritrovo tutti!
Nella mia testa coincidono, uno ad uno, i toponimi e gli ambienti geografici ed urbani.

Mi piace, comporre i puzzle.
Mi piace quando un pezzo, osservato a lungo, finisce finalmente al suo posto; e tutti gli elementi del suo perimetro, geometrici, figurativi e cromatici, prima solo classificati nella mente, trovano le loro esatte corrispondenze nel circolo degli altri pezzi a contorno. È una soddisfazione, che cresce piano ed infine esplode, nel sonoro click dell’incastro compiuto.

La City, negli spazi lungo lo Strand e tra questo ed il Thames, è un enorme puzzle nel quale mi sto muovendo, componendone i pezzi.
Qui, e non a Parigi, ritrovo il grigiore descritto da Eco. Qui, vedo ovunque le geometrie delle architetture massone, le forme antropomorfe di pietra, arcane e minacciose, che incombono ad intimidire gli operatori della finanza internazionale: gli unici che si muovono di casa in questi spazi.
Qui, il lungofiume sulla riva sinistra si chiama Temple Embankment, e conduce alla Chiesa che fu dei potenti Templari. Sorge nel mezzo di un cinereo giardino; che mi sembra, unica eccezione tra tutti i floridi parchi londinesi, spoglio; disabitato da scoiattoli e uccellini.
Qui, le architetture tracimano di quei simboli medioevali e di quelle figure misteriche che Eco attribuisce invece alla gioconda Parigi.

Tutto si compone: gli elementi simbolici descritti nel romanzo stanno nel perimetro tra Saint Martin, il fiume Tamigi, il Tempio, la Torre.
Mi sembra di leggere ora, chiaramente, nelle trame di Eco.
L’Autore dichiara che l’ispirazione del romanzo gli era venuta nel 1984; durante un viaggio, dice lui, a Parigi. Visitando i luoghi dove avevano vissuto i Templari, aveva visto il Pendolo, dentro il Museo di Saint Martin des Champs. Che l’aveva colpito, al punto da farlo diventare l’elemento cruciale della sua narrazione.
Il “Pendolo di Foucault” è un romanzo nel quale con evidenza Eco mette in luce come il complottismo fosse da anni una componente della società e della cultura italiana, e permeasse pensieri ed azioni in certi ambienti della politica e della finanza.
Il “Pendolo di Foucault” è anche un appariscente ma freddo strumento scientifico che, basandosi sul principio della costanza del piano di oscillazione, evidenzia e misura la rotazione terrestre. Che senso ha, dunque, per Eco, nell’economia del suo racconto, la centralità di quel cavo pendente, di quel corpo appeso ed oscillante, incontrato nel 1984?

Tutto il puzzle, messi insieme i suoi pezzi, restituisce finalmente il suo disegno: eccomi arrivato al Ponte dei Frati Neri. Qui, e non a Parigi, nel 1984 penzolava senza vita il corpo del banchiere di Dio, “suicidato” dalle sue stesse trame finanziarie che non aveva saputo dominare.
Quel corpo, qui e non a Parigi, aveva dunque scatenato la fantasia dello scrittore, spingendolo a scrivere una storia medioevale ambientandola in un mondo contemporaneo.
“Fu allora che vidi il Pendolo. La sfera, mobile all'estremità di un lungo filo fissato alla volta del coro, descriveva le sue ampie oscillazioni con isocrona maestà.”

Sono soddisfatto. Ho svelato un complotto letterario.
Di cui, peraltro, la chiave di interpretazione ci è offerta proprio dall’Autore, che nella citazione di apertura scrive: "ciò che abbiamo occultato in un luogo, l'abbiamo manifestato in un altro, affinché possa essere compreso dalla vostra saggezza" [De Occulta Philosophia, H.C.Agrippa von Nettesheim].

Mi resta un solo arcano, da capire: perché Eco abbia voluto dissimulare, trasferendo l'azione londinese in Francia, ambientandola negli stessi toponimi. Forse, ha voluto dissociare se stesso dalla sua scelta di trarre un corposo ed erudito romanzo da un oscuro fattaccio di cronaca nera.
Più propriamente, penso che abbia voluto evitare di trascinare il suo talento a descrivere trame di cui pure intuisce i meccanismi culturali, ma non conosce (e può solo immaginare) gli ambienti reali in cui a tuttoggi si sviluppano.
Indulgere alla tentazione di millantare come realtà la rappresentazione di quel mondo nascosto (che nel “Pendolo di Foucault” resta invece confinato ad argomento di romanzo), avrebbe mescolato Eco alla schiera dei personaggi minori del suo stesso libro. Né io son, peraltro, -sembra dirci con le parole del Carducci- un danbrauniano, che tiri quattro paghe per il lesso...
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E mentre ascolto nella mia testa il click dell’ultimo pezzo che va al suo posto, mi rendo conto che è molto tardi, e non sono riuscito a concludere la mia passeggiata: la Torre è ancora lontana, e non ho nemmeno più il tempo per consumare il lunch ad un pub. Di corsa, mi infilo nel Tube per tornare ad Heathrow. E poi di corsa al Gate; infine sull’aereo. Torno a Pisa.

E mi scopro, in volo, varcata la Francia e poi le Alpi, guardando dall’alto finalmente la città dove vivo, a riorganizzare mentalmente gli elementi sulle rive dell’Arno.

E a ritrovare ordinati, in questa città altrettanto massone, San Martino, il fiume, la Torre, la Chiesa che fu dei Templari…
Ma questo, è un altro giallo. Un Giallo Pisano.


London, Temple Embankment, Monday October 9th, 1989





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