La Sindrome di Gennaro Serra
e la maledizione della Sinistra...
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Nel luogo più antico di Napoli, sul colle di Pizzo Falcone dove all’incirca 28 secoli fa fu fondata la città di Parthenope, c’è il Palazzo Serra di Cassano, oggi sede dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici. Il Palazzo è un maestoso edificio con magnifici scaloni in piperno e chiocciole nascoste, chiostri segreti ed un pomposo cortile ottagonale di rappresentanza. Visitarne le sale affrescate è sempre un immenso piacere, ma è soprattutto un tuffo nella Storia.
In una sua corte si apre uno degli accessi alla “galleria borbonica”, che è parte di quella articolatissima Napoli Sotterranea che da un paio di millenni si sviluppa secondo le sue particolari regole urbanistiche, parallelamente alla città visibile.

Il Palazzo ha due portoni. L’attuale entrata è su via Monte di Dio al numero 14, ma in origine quello era l’ingresso secondario. Dal portone principale, che affaccia su via Egiziaca a Pizzofalcone, di rimpetto a Palazzo Reale, il 20 agosto 1799 usciva in catene Gennaro Serra, per essere giustiziato in piazza Mercato.
Quel giorno il portone fu chiuso in faccia al Tiranno e, da quel giorno, chiuso è rimasto.

Questa è una delle vicende più note e simboliche della Repubblica Partenopea del ’99, l’unica vera Rivoluzione borghese in Italia.
Fu una stagione gloriosa, la cui fine bruciò le speranze e portò al patibolo un’intera classe dirigente giovane e illuminata, che avrebbe veramente potuto fare l’Italia. Giustino Fortunato la descrive così:
    “Parlo di quella vera ecatombe, che stupì il mondo civile e rese attonita e dolente tutta Italia: l'ecatombe de' giustiziati nella sola città di Napoli dal giugno 1799 al settembre 1800 per decreto della Giunta Militare e della Giunta di Stato.”
Ma il momento centrale di quella giornata d’agosto, l’aneddoto su cui voglio concentrare l’attenzione, non è la ripicca del Duca Luigi Serra di Cassano contro Ferdinando IV di Borbone che non aveva concesso la Grazia a suo figlio. Un atto tutto “napoletano”, il “dispetto” di quel portone nobiliare sbattuto in faccia al monarca…
Il punto centrale che, come un’illuminazione, chiarisce di colpo i motivi del fallimento di quella rivoluzione mancata si svolse sul patibolo, quando il giovane Gennaro fece bruscamente i conti con i suoi ideali, le motivazioni della sua passione politica e la pratica della sua lotta rivoluzionaria.
Con suo grande stupore, la folla in piazza Mercato delirava di gioia!

Per un rivoluzionario, il patibolo è in fondo in fondo un martirio accettabile: è il mezzo con cui il Tiranno ristabilisce il suo ingiusto potere sul Popolo, basato sul terrore; che quindi rallenta ma rende più certa la vittoria finale.
Ma qui la situazione era completamente differente: il Popolo gioiva!

Gennaro si rese improvvisamente conto, solo un attimo prima di morire, del profondo isolamento politico in cui era maturata la Repubblica. Mostrando tutta la sua disarmante ingenuità e disillusione, Gennaro si diresse verso il boia dicendo:
    “Ho sempre lottato per il loro bene, e ora li vedo festeggiare la mia morte”.
Quella repubblicana fu un’elaborazione intellettuale che pensava di rappresentare i bisogni del Popolo ma che mai si era realmente confrontata con la realtà locale. Non fu quindi rappresentanza, ma rappresentazione, inscenata recitando il copione già scritto della Rivoluzione Francese.
Ma qui quel copione non funzionò, perché a differenza di quella che regnava a Parigi, la tirrannia dei Borbone di Napoli aveva ereditato gli "anticorpi" paternalistici e elemosinieri che erano stati sviluppati dagli Spagnoli dopo la Rivoluzione di Masaniello (v. "La Larga Intesa...").

L'amara riflessione di Gennaro confidata al suo boia sembra la stessa che regolarmente affligge la Sinistra, all’indomani del suo ricorrente patibolo elettorale…
A distanza di duecentoventuno anni, forse sarebbe giunto il momento di soffermarsi un attimo, per tentare di comprenderne davvero i motivi.




Pisa, ottobre 2020



il monumento a Gennaro, nell'atrio dello
Scalone d'Onore in Palazzo Serra di Cassano
opera di Tullia Matania



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