2 Partènope ---------
Le novelle, le leggende, le fiabe, si mescolano alla Storia; i racconti, ai ricordi. Nell'epoca di cui narro, l'Umanità, nata da pochi millenni, aveva già percorso tante tappe della sua crescita, imparando a camminare all'impiedi, ad esprimersi con la parola, a distinguere ieri dal domani; ed era ormai così esperta nell'uso di attrezzi da saper costruire oggetti raffinati e di svariati materiali, per l'uso comune o per il solo gusto del bello. Il suo sviluppo non era stato però dovunque uguale; e se a Oriente da gran tempo erano sorti Imperi e Stati organizzati su leggi e ordinamenti scritti, su questa nostra sponda del Mare, dal lato dove il sole cala, tutto quello che l'Uomo riusciva ad esprimere restava limitato al qui ed oggi; non era in grado di trasmettere le sue sensazioni, accadimenti e pensieri ad altri in altri luoghi ed altre epoche; insomma, non conoscendo l'uso della scrittura, doveva ancora compiere il passo finale, quello che dalla Preistoria l'avrebbe condotto alla Storia. Ciò non di meno, i pochi avvenimenti di quella mattina, e di cui dico, si sono impressi così saldamente nella memoria dell'Umanità da essere certamente a tutti noti. Ma, come ci accade evocando il ricordo di vicende della nostra infanzia con persone all'epoca già adulte, di scoprire spesso di aver attribuito significati importanti e magici a circostanze altrimenti banali, così credo sia accaduto per quell'episodio, vissuto dall'Umanità all'epoca della sua infanzia. E quindi il suo racconto ci giunge distorto. Non fu atto di valore, o evento da riempire pagine di romanzo; si trattò di un fugace incontro, di un impossibile amore tra l'Eroe, reduce dalla distruzione di una grande città, e la Sirena. In molti l'hanno già narrato, nei modi più diversi; ma di tanti nessuno, credo, fedelmente. Il primo e più famoso dei racconti è quello che lo stesso antico Eroe che ne fu protagonista (pastore di greggi e Re di un'isola lontana e minuscola, soldato per forza, marinaio per vocazione) ne fece con poche frasi, dopo aver cenato, per deliziare e stupire i suoi ospiti, nascondendola nel mezzo di altre strane avventure di mare. Il suo racconto, raccolto poi in versi, è ancor oggi letto nelle scuole. Ma l'Eroe non fu sincero; non perché credesse -a torto, come vedremo- di essere rimasto unico testimone sopravvissuto all'episodio. No; il suo racconto non è degno di fede perché ci tramanda soltanto ciò che egli aveva visto attraverso le sue paure. Così, la storia che si legge non è quella che io invece conosco, e voglio svelare; quella vera, la più dolce tra quelle che le onde portano con sé, avvolta da tre millenni nella schiuma della loro cresta perché non ne sfugga il canto, uomini e delfini si tramandano in questa parte del mondo da cento generazioni. Dopo il suo passaggio, difatti, quella storia diventò leggenda; e, come per una fiaba, di bocca in bocca ciascuno a suo modo volle riferirla. L'ascoltò un giorno un viaggiatore di rara sensibilità che veleggiava in queste acque. Veniva dalla lontana e fredda Danimarca. La sua vita fu scrivere favole e, come Pinocchio, era figlio di un ciabattino. Nei suoi viaggi capitò a Napoli, e non se ne poté staccare; dai pescatori di Capri o dalle onde del mare origliò di questa strana storia d'amore, e la descrisse, tornato in patria, in una sua famosa fiaba. Ma anche quest'altro racconto non è sincero. Perché non ha i colori di questo mare: è triste, come il cielo di Danimarca, o come il cuore di quel viaggiatore. Triste, ma di una dolcezza straordinaria; e disegnò così bene la figura di quella giovane sirena innamorata che, se oggi Partènope (questo è il tenero nome di quella creatura) ha il suo monumento in bronzo, non sullo scoglio di Megàride, ma sul mare di Copenaghen, è grazie alla novella di quel viaggiatore, disceso a Napoli dal mare del Nord. Mi proverò anch'io a descriverla, così come l'ho fantasticata quando, molti anni fa, ne ho sentito il racconto. L'impresa non è facile: le narrazioni precedenti sono tutte belle e certo più poetiche di quella che potrò farne io; e, inoltre, hanno già fissato i caratteri dei personaggi ben diversamente da quanto invece mi risulta. L'Eroe: astuto, perfetto e nobilissimo; la Sirena: mostro marino, campione della perfida seduzione, il cui canto è arma letale, annientatrice prima della mente e poi della vita stessa, raffigurata dagli antichi come mostro dalla testa di donna ed il corpo di bestia (uccello rapace prima, pesce feroce dopo), divoratrice di uomini e marinai. Prima di procedere nella narrazione devo smentire questi falsi pregiudizi, soffermandomi a descrivere i due protagonisti come emergono dalle loro storie, al di là dei simboli che gli hanno attribuito. E comincerò subito da lei, da Partènope. La Sirena, tutt'altro che un mostro, era invece una splendida creatura, la più bella, tra quante popolavano le terre ed i mari, che la Natura avesse create; chi la descrive con un corpo di squame non ha mai provato ad immaginare la sua pelle liscia, i suoi capelli lunghi e neri, i suoi occhi verdi che solo il colore del mare profondo di quest'isola, oggi, ricorda. Non deve meravigliare se parlo delle sirene come di creature reali: che siano realmente esistite è cosa certa, vi basti la testimonianza di quanti le videro; che non sono certamente pochi, giacché presso ogni popolo, di qua e di là dal grande Oceano, se ne tramanda il ricordo. Né è la mancanza di reperti a confutarlo: la Natura ha partorito creature ben più bizzarre, delle quali nessuno scienziato avrebbe mai supposto l'esistenza prima di averne incontrate le tracce!
Ma la Natura, che nel suo continuo modificarsi aveva creato quell'essere, per motivi indecifrabili ne aveva poi decisa l'estinzione. La Natura (non si creda a certe bizzarre teorie) non procede mai per lenta evoluzione, ma conserva ad oltranza ogni stato di equilibrio conquistato. Finché, l'accumularsi di tensioni incompatibili con quello, superando un qualche freno invisibile, fa violentemente muovere il sistema verso una diversa armonia. E in questa corsa cieca spazza via incolpevoli specie viventi. Questo accadeva in quegli anni, e vittime erano le povere sirene. Di esse, una piccola colonia ne restava, ormai solo di esemplari femminili che, stabilitesi su quest'isola al centro del grande mare che fino a pochi anni prima le aveva viste numerose, attendevano la fine inevitabile. Tra queste viveva Partènope. E nel pronunciare il suo nome un senso di dolcezza mi prende. E' il suo corpo, delicato e flessuoso, quello che vedo muovere nelle acque della caletta sotto di me, seguendo lento il fluttuare delle onde. Che pensieri, che desideri, mi chiedo, possono animare una giovane sirena? Il mare, per chi come lei vi sia nato, è un universo completo e perfetto. Gli innumerevoli anfratti del fondale, la varietà infinita delle specie che lo abitano, la ricchezza di colori, sempre diversi nelle ore del giorno ed al variare delle stagioni, erano certo stati, per lei bambina, spunti inesauribili di esplorazione e di gioco. Ma poteva quel mondo, per quanto vasto, riempire un cuore che stava crescendo? Sempre più spesso ora le accadeva di pensare, e forse con amarezza, alla condizione in cui viveva, pure con sua madre e le altre, senza però, lei la più giovane tra tutte le sirene, nessuna con cui dividere i giochi. E nemmeno alcun compagno, a cui raccontare ciò che provava di sé, o col quale semplicemente restare ad ascoltare il mare intorno; seduti magari su qualche piccolo scoglio, che potessero considerare un loro rifugio segreto. Intendiamoci; non che percepisse chiaramente una sua qualche privazione, o che rimpiangesse distintamente la mancanza di qualcuno cui confidare emozioni ed esperienze: non avendo mai conosciuto altra condizione, il suo era solo un impreciso desiderio di mutamento, una pulsione verso un altrimenti che non aveva capacità di figurarsi. A questi pensieri lasciava spazio, però, solo di rado, standosene magari rannicchiata nell'incavo di uno scoglio, ad osservare il mare accarezzarle la coda. Questa mattina, come dicevo, eccola invece giocare tra gli schizzi delle onde che si rompono in spruzzi contro gli scogli di calcare della piccola cala. Il tempo d'estate era passato: le notti avevano ormai preso in lunghezza il sopravvento sul corso del sole. E come ogni anno il mare raffreddava e le onde si facevano, di giorno in giorno, più alte. I delfini si erano mossi, in larghi branchi, verso acque più calde, ed anche i marinai, che da terre remote sui loro velieri pure spesso vedeva in queste acque, non sarebbero tornati a passare che con la bella stagione. Questo non la turbava affatto: sapeva bene che anche i giorni grigi d'inverno hanno i loro giochi, e non esiste mare in burrasca che non consenta bellissime corse sulla cresta dell'onda! Nelle giornate tranquille d'inverno, poi, si sarebbe come sempre recata a nuotare con tutte le compagne in quel golfo che oltre l'isola si apre, per poi racchiudersi tra le terre tutt'attorno che, uscite dal mare, salgono fin quasi al cielo. Su cui strani esseri vivevano, in tutto simili a loro, tranne per il fatto di stare all'asciutto e di potervisi muovere perché, fatto questo veramente buffo, avevano la coda divisa in due tronconi che terminavano con mostruose appendici piatte e ossute. A parte questa loro deformità, quelle creature erano simpatiche e cortesi, ed era piacevole stare a spiarle di nascosto mentre sulla riva si affaccendavano a rammendare quelle loro reti che usavano per pescare, o avvicinarle quando venivano con le barche sul mare. O anche, verso sera, unirsi a loro nel bagno, nuotando e giocando presso la riva, mentre i fuochi bruciavano sulla spiaggia. O, perché no, gareggiare con loro nel canto. D'improvviso, la sirena abbandonò i suoi pensieri: un brivido, un presagio triste si era impadronito di lei. Voltò di scatto la testa dalla parte dove il sole muore. Dal mare aperto, oltre la sagoma dei faraglioni che ora la foschia, alzandosi, andava scoprendo, proveniva un lento e cadenzato rumore. Quel sommesso, ritmato fruscìo le era familiare, ed indicava per certo l'arrivo di una nave. Del tutto inatteso: non poteva aspettarsi che alle soglie della brutta stagione, ancora marinai si avventurassero sul mare, a rischio di burrasche improvvise. Ma la sua non era soltanto sorpresa: era proprio paura. Qualcosa di molto sinistro accompagnava quel rumore. Il canto della Sirena Eppure quante volte, richiamata da un lontano scrosciare di remi si era tuffata in acqua, ed aveva nuotato veloce verso la prua della nave in arrivo; quante volte in quella corsa aveva incontrato i suoi amici delfini provenienti dal mare aperto, anch'essi richiamati, come ad un segnale, da quel rumore, e tutti, insieme, nuotando e saltando, ora sopra ora dentro la superficie del mare, avevano corso a perdifiato, sfidando in velocità lo strano pesce di legno, cercando di restare davanti alla sua carena, là, dove il mare, prima di dividersi in due getti ai fianchi della nave e incresparsi e frangersi in schiuma bianca, si alza a formare un'onda. Quante volte, stando davanti alla prora, aveva sentito il mare sulla schiena spingerla lontano, e farla scivolare veloce quasi senza nuotare, finché, per troppa eccitazione, si buttava di lato per fermarsi. Ma alzando la testa, vedeva i delfini saltarle dinnanzi, a sfidarla; e allora riprendeva a nuotare, con ìmpeto, finché sentiva di nuovo il mare prenderla ed innalzarla; fermava allora le braccia, le richiudeva lungo il corpo, aspettando che l'onda la sollevasse, per lasciarsi poi scivolare lungo il suo pendìo. Quante volte in quel gioco aspettava che la enorme carena di legno le si avvicinasse, per poi, con un leggero movimento della coda spingersi avanti, mentre i delfini le roteavano sopra, saltando fuori dall'acqua fin quasi all'altezza della sponda. A differenza di quelli la sirena poteva, rotolandosi sul fianco, continuare a nuotare stando sul dorso; e allora guardava il cielo sopra di lei; e la prua della nave, alta e maestosa come una creatura di legno, sovrastarla e tagliare il mare. Lentamente, al ritmo delle vogate, si alzava; per poi ripiombare, con un'onda, su di lei. Come se zampettasse con mille remi sulla superficie dell'acqua, la creatura si innalzava e ricadeva, con lenta regolarità; e la sirena, con lo stesso ritmo, si sentiva attirare da quella, e poi, mentre la vedeva quasi chinarsi su di lei, respingere lontano. E il mare tra lei e la barca, in quell'alternarsi di onde, carezzava dolcemente i suoi capelli, le scorreva sul collo, che ora lei porgeva a quel tenero contatto inarcando il capo e le spalle; e lungo le braccia l'acqua scivolava tra le dita, sulle palme delle mani, che muoveva su e giù al ritmo di quella vòga, insieme ai fianchi ed alla coda, per spingersi avanti assecondando il mare. E dalle spalle, sentiva il pelo dell'acqua sul suo petto scorrerle veloce a carezzarle il seno, per poi formare due vortici all'uscita di quel canale, e distendersi sul ventre. E nuovamente la prua si alzava, allontanandosi da lei; l'onda, affievolita, rallentava, per prepararsi ad incontrarla di nuovo, al successivo alzare dei remi. E gli uomini allora, lanciatisi un avviso, accorrevano sul bordo di prua per vederla; e additandosela l'un l'altro ridevano e gridavano; la sirena dapprima si univa al riso; poi, rossa in volto, si ritraeva e, giratasi, nuotava lontano. Ma se quelli continuavano a chiamarla, a loro dedicava il suo canto: una voce lieve allora si alzava dal mare, e ad ognuno narrava dei suoi segreti pensieri.
A ciascuno capita di lasciarsi alle spalle cose care. Distratti da chissà quali importanti destini dinnanzi a noi, proseguiamo nel viaggio della vita, perdendo intanto affetti, amicizie. E scivolano così tra le dita, per dimenticanza o per disattenzione, un momento d'infanzia, un amore profondo, un gesto spontaneo, una parola mai detta. Di questo, a chi poteva udirla, parlava la Sirena: di noi stessi; ed in questo era la seduzione del suo canto. Non nella promessa di chissà quali paradisi, ma nell'irresistibile richiamo delle occasioni sfuggite, dei momenti che ciascuno avrebbe voluto rivivere, ed ai quali non aveva mai dedicato altro che un pensiero. Sempre più nitida se ne delineava la sagoma, mentre, ondeggiando alto sul pelo dell'acqua, un grande occhio nero e minaccioso usciva ora dalla nebbia. Alla moda dei fenici la grande prora, colorata di rosso, era ornata su ambo i lati da quel segno, che l'Eroe aveva voluto fosse dipinto per scacciare i mostri che a quell'epoca popolavano il mare e la fantasia dei naviganti. Su di essa incombeva però un malefìcio, una fattura che una strega (poteva mancare, in una favola che si rispetti?) di nome Circe, per cattiveria o forse solo per gelosia, aveva lanciato su quei marinai. Come fosse una nave di fantasmi, che da remote acque oltre l'orizzonte qui si dirigesse con orribili intenzioni, nessun ritmico urlo di vòga si sentiva, ad incitare i rematori; né canto, né suono di tamburo o d'altro strumento. Solo il rumore cadenzato del battere di remi nell'acqua; costante, incessante, incalzante, nel silenzio di questo mattino d'ottobre quel rumore ora riempiva tutto il mare. E ad ogni scroscio, il cuore della povera sirena dava un sobbalzo. Avrebbe voluto che quel presagio nefasto svanisse, e che d'un tratto tornasse, paterno, il silenzio su di lei e sul suo mare. Ma, tutt'altro che sparito, dopo ogni breve, penosa sospensione, il rumore si faceva, anzi, più vicino ... Chi sia l'Eroe, di dove venga, cosa faccia in questo mare, come la strega Circe l'abbia raggirato, perché sulla sua nave imperi il silenzio: per quanto siano fatti ben noti, voglio comunque raccontarli a mio modo. Accompagnatemi allora un passo indietro, un passo breve, alla sera prima ... continua: 3 Ulisse torna a: Indice |
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