3 Ulisse
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... e penso: «la prossima volta
fermo la baracca e salto giù»


Giovanni Guareschi, Corrierino delle Famiglie (Diretto 136), 1954




Tirata in secca la barca, l'unica ormai rimasta della flotta di Itaca dopo le tante strampalate avventure in cui l'imprudente ammiraglio li aveva trascinati, i marinai accesero il fuoco e prepararono per la notte. La piccola cala sabbiosa, poi detta dei trenta remi -così minuscola che la barca, per traverso, ne occupava la gran parte dell'imboccatura- era racchiusa da pareti di tufo ed offriva un riparo sicuro, dal mare e dai venti.
Dopo una stancante giornata di navigazione, al calare dell'oscurità, così densa di ignoti pericoli, è piacevole in compagnia attendere il sonno, mangiando e discorrendo. Delle proprie passate avventure, che la cattiva memoria ed il vanto ingigantiscono, di donne mai amate e di occasioni perdute, che nel racconto immancabilmente si colgono.
E, come sulla soglia di casa, in mancanza di quella, anche il contatto familiare dietro le spalle della fiancata della barca è sufficiente ad alleviare le proprie paure.

Lui, l'Eroe, si teneva in disparte; e di lontano osservava i suoi uomini all'incerta luce della fiamma parlottare tra loro; forse proprio di lui, della sua indecisione. Adesso cercava, nei loro volti, negli sguardi che talora, di sfuggita, gli sembrava gli fossero rivolti, conferma ai suoi timori.
Aveva perso la fiducia e la stima dei suoi sudditi, di questo era certo.


L'ira funesta del Pelìde Achille

In quei momenti, in cui gli veniva meno la cieca sicurezza che sempre sostiene il vincitore, strani dubbi si facevano strada nella sua mente; e nel ripercorrere col pensiero la sua vita, anche le gesta da cui più gloria aveva raccolto, gli apparivano sotto una diversa angolazione.
Ormai lontani erano i giorni in cui, gonfio di soddisfazione per la sua brillante astuzia e forte dell'ammirazione dei suoi, erano salpati verso casa, le navi cariche di bottino, lasciandosi dietro la poppa un cielo di fiamme!

Troja; che splendida città! Non la più grande né la più importante, ma certo la più bella del grande Impero che, dalle remote frontiere con gli Egizi e con gli Assiri si estendeva lungo la costa orientale del nostro Mare; sul quale da lì, fino ai suoi estremi confini occidentali, la sua flotta dominava. Quel grande Impero della stirpe Ittita annoverava tra i suoi popoli le genti più ingegnose, quei Fenici padroni dei commerci e di ogni arte.
Di alti palazzi, erti sulle colline in faccia al mare, si ornava Troja, rivestiti dei colori dell'oro e dell'argento; e di templi, e piazze, e giardini di arancio e pistacchio. Non vi era viaggiatore, sia proveniente dalla piana alle sue spalle, sia che la vedesse d'improvviso all'entrata nel golfo doppiando il capo, che potesse sottrarsi al suo fascino. E vi arrivavano per godere del clima mite e della gente ospitale; e del profumo di zàgare, che dai giardini spirava fino a quei moli con la brezza al tramonto.
Lui ci era arrivato navigando da occidente, in compagnia di un esercito di pecorai, e per tutt'altro motivo. Con un pretesto che oggi gli appariva futile e volgare, l'onore di un marito tradito, si erano dati per un decennio a razzìe e brigantaggio su quelle sponde del mare.
Questa è la guerra; in questo modo l'ha sempre vista combattere; altra via per affermare la dignità di un uomo non gli è mai stata insegnata. Di quelle sere, passate attorno al fuoco degli accampamenti nelle terre d'Oriente ormai così lontane, gli restava il ricordo dei discorsi vanagloriosi dei suoi compagni. A ben vedere, fin da allora non si sentiva di condividere fino in fondo l'esaltazione di quei rozzi sbruffoni. Presagiva, sperava, voleva che gli fosse offerto dagli dèi un destino più grande.
Lui si sentiva migliore! Non si atteggiava a grande Eroe, non si gettava con gesti plateali o sconsiderati nella mischia; ma nemmeno se ne ritraeva quando era il nemico a prendere l'iniziativa, come a taluni di quegli spacconi aveva visto fare.
Di quelli, il campione era un giovane cammorrista chiamato Achille. E lo sapeva lui, Ulisse di Itaca, dove era dovuto andare a ripescarlo, il bellimbusto, per portarlo a Troja! Da donna si era travestito, e con gli eunuchi si era nascosto tra le figlie di Licomede, appena aveva sentito della chiamata alle armi!
E poi, in piena guerra, al primo pretesto si era dichiarato offeso, per non partecipare ai combattimenti. A sentirlo parlare lo si sarebbe detto il più bravo, il più ardito; e, sempre a parole, guai a contraddirlo! Ma in battaglia non s'era mai fatto vedere. E quegli altri, stupidi, ad assecondarlo, attenti a non contrariarlo ...
Troja era bella; aveva forti ed alte mura, e dispositivi di difesa inespugnabili. Le armi dei troiani erano dure, di un metallo sconosciuto: bianco, forte e lucido; altro che le scuri di bronzo che si erano portati! Questi fatti ai suoi compagni sembravano circostanze irrilevanti. Ma come avrebbero potuto mai vincerla, quella guerra; come, senza l'unica vera forza di cui disponevano: la sua astuzia.
Erano andati avanti per dieci anni facendo i briganti da strada, e chissà per quant'altri li avrebbe costretti a restare in quelle terre lontane col ricatto dell'onore quell'incapace di Agamennone, se non avesse lui deciso di agire finalmente di sua testa.
Invece, di gente vuota e folle si sentiva forte il condottiero; gente inaffidabile e insensata come Achille: che un giorno se ne stava bloccato dal terrore in un cantuccio della propria tenda, il giorno dopo eccolo, a gettarsi nella mischia, a sfidare in duello all'ultimo sangue il figlio del re Priamo, esaltato dal possesso di una spada di ferro (sicuramente derubata a qualche troiano in chissà quale vile imboscata, e che ora andava proclamando fosse stata forgiata apposta per lui dal dio Efesto. Per lui, quasi un semidio, invulnerabile per chissà quale prodigio) ...

Il pensiero di quegli anni, dei migliori della sua vita, e che aveva sacrificati ad un ideale non suo, gli faceva montare una rabbia altrimenti repressa; e adesso, perché ancora quell'accanimento del Fato contro di lui? Cosa avrebbero preteso ancora gli dei?
Cupo, avvolto nei suoi pensieri, si avviò nell'oscurità su per lo scosceso dirupo, a testa bassa, i pugni serrati, su, su per la scogliera friabile seguendo tracce di un incerto sentiero. In breve la salita gli parve più dolce, e si accorse di trovarsi sulla sommità del colle. Di là, alzò finalmente lo sguardo dai suoi passi, a cercare in alto, nelle stelle, le risposte che gli erano dovute.

La mia serata di ieri è invece trascorsa, piacevole, in buona compagnia; un saluto, e gli amici sono rientrati in albergo. Con lo sguardo li accompagno fino al banco del portiere, ma io resto qui, nella strada, senza alcun sonno per l'eccitazione (o sarà per le melanzane, che nonostante la passeggiata ancora corrono su e giù?): così mi avvio, a passo veloce, incontro a quest'aria dolce e a questa notte stellata.
Oltre l'abitato, verso il quadrivio, e poi su, lungo la strada che in ripidi tornanti si inerpica per il dirupo di San Michele, verso Anacapri. La strada è buia, la notte senza luna; l'abbrivio col quale affronto la salita dopo due curve è già esaurito. Così mi volto, e ciò che vedo merita di essere descritto.
L'abitato di Capri e le sue poche luci è in basso, lontano; la sagoma scura del monte di Tiberio che lo sovrasta e l'incornicia si disegna nera sul nero del cielo, e sembra un lieve declivio, come un soffice triclinio. Mollemente vi si adagia Orione, il corpo disteso ed il gomito poggiato sopra la sommità.
Il cielo è pieno di stelle; vedo il cigno a occidente volare lontano, mentre sulla vòlta si disegnano le storie già note, che ogni notte d'autunno si rappresentano per chi vuole osservarle.
Vedo già in posa al proprio posto Cefèo e Cassiopèa, monarchi d'Etiopia, disperarsi come ogni notte per la sorte della loro unica figlia, Andròmeda; essi non sanno che ella è già in salvo dal mostro del mare; eccola infatti volare, attraversando la gran parte del cielo, aggrappata a Pègaso, il cavallo alato del suo salvatore; mentre questi, l'audace Persèo, indugia a mostrarci la sua arma letale, l'orrida testa che mozzò a Medusa.
    Quanti mostri, benevoli o, più spesso, orridi e malefici, tutti comunque prima o poi costretti alla resa da qualche Eroe cui bontà e astuzia non difettassero, popolavano le storie degli antichi; come questa, pure bellissima, che ci hanno lasciato tracciata in cielo, e che il tempo da allora non ha più cancellata.
    Non faccia sorridere l'immodestia di quegli antichi saggi, che supponevano il firmamento fosse posto lì per raccontare loro quelle strane storie, né l'ingenuità di prenderle per vere: in mancanza di altre certezze, essi colmavano di immaginazione i buchi della loro conoscenza.

    E questo meccanismo della mente è rimasto da allora invariato, anzi è assurto a metodo scientifico! E se l'uomo moderno non riconosce più in ogni cosa in cui si imbatte una presenza benigna o malevola, o in ogni evento della vita il volere di un dio, e se nel tuono non ascolta più con terrore la voce irata del padre degli dei, è perché a ciascuna domanda ha già trovata, nella sua immaginazione, una più sofisticata risposta.
    Tutte le grandi certezze dell'uomo moderno sono basate su ipotesi scientifiche, su costruzioni astratte della fantasia, dette "modelli", al pari di quelle costruite secoli addietro da uomini a noi del tutto simili. Con la differenza, però, che i "modelli" sono oggi costruiti (è in questo il metodo scientifico) non per essere adorati, ma perché siano perfezionati o confutati dalle esperienze di altri.
    In questo è il segreto del nostro progredire.

    Comunque, a ben vedere, anche questa differenza è solo apparente. E mentre negli scritti di tanti antichi, nei confronti delle credenze del tempo si trova traccia di un sincero e positivo scetticismo, talora le parole di alcuni moderni scienziati dimostrano un tale attaccamento alle costruzioni della loro fantasia, da non ammettere verifiche.
Ogni notte, per chi vuole osservarle, le stesse storie si rappresentano sul palcoscenico del cielo; ma ogni notte mai uguali ad un'altra: per il moto degli astri, o per il variare della stagione, del punto di osservazione ...
E' vero! Le stelle ci dicono sempre qualcosa di diverso, qualcosa di noi. E non perché, come vogliono far credere gli astrologi, compongano intenzionalmente in cielo buffi giochi di parole, come i vecchi discorsi della Sibilla di Cuma. Semplicemente, come il magico specchio della cattiva matrigna, le stelle riflettono l'animo con cui le guardiamo.
Orione, ad esempio: la sua costellazione, inconfondibile per il bel disegno dalle spalle larghe, con la cintura e la spada che gli pende, al suo apparire in cielo annuncia l'arrivo della brutta stagione; gigante feroce ed ottuso, mi capitò d'incontrarlo, una sera di marzo, in una fredda Berlino ancora divisa.
A causa della diversa latitudine, tutte le stelle si mostravano ruotate, e la polare era molto più alta. Enorme e marziale, Orione mi apparve in fondo ad un viale di tigli ergersi in piedi sull'orizzonte, come eroe teutonico tra grigie guardie popolari e polizia di frontiera, proprio nel mezzo della sconfinata Alexanderplatz!
Ma questa sera mi sembra diverso, pacato e sereno, quasi che sia in amabile conversazione con le sue eterne vittime: le figlie di Atlante. Ed anche Giove, che col suo fatuo codazzo di satelliti e cortigiani è ospite occasionale del Toro, si è fermato stanotte a scambiare con Mèrope forse un saluto, forse un perdono.

Tutto il Creato, in questa parte del mondo, sembra in pace, stanotte; c'è da scommettere che anche l'Eroe, ad un simile spettacolo, si sentisse contagiato; e che l'ira, che l'aveva accompagnato in cima a quel colle, l'abbandonasse ben presto.
Da quando aveva lasciate la sua terra e la sua donna, delle quali non aveva più da anni alcuna notizia, era stato soldato ed Eroe, marinaio ed involontario girovago. Ma non era, in fondo, soltanto un tenero abbraccio, un luogo come questo sereno, ciò di cui sentiva il bisogno, e che andava ricercando per mare?
E poteva mai essere che un simile golfo, di cui già subiva il richiamo, ospitasse quel mostro maligno di cui Circe l'aveva avvisato? Se una creatura viveva in quel mare, era curioso di vederla, sentirla, conoscerla; sfidando pure, magari, il buon senso.
Fu così che decise: l'indomani mattina non si sarebbe tappate le orecchie, ma avrebbe ascoltato ciò che il mare aveva da dirgli. Ma siccome era uomo prudente, sarebbe rimasto legato all'albero maestro, per impedirsi, nel caso, la fuga.
Riappacificato, almeno per ora, col suo Destino, tornò sui suoi passi, a trascorrere con gli altri, già immersi in un sonno agitato, quella notte di attesa.

E intanto una falce di luna calante, annunciata da un forte chiarore, già sorge sul mare, e scalza Orione il gigante dal suo comodo giaciglio. E mentre quello riprende a malincuore il cammino, questa fa capolino sulla conca di Capri.
Mezzanotte è passata da tempo; e così, lentamente, ridiscendo in paese.


continua: 4 L'amore ed il mare (1a parte)
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