|
4 L'amore ed il mare (1a parte)
--------------------
charta nautica, XV Sec.
Come gli dèi vollero, anche quell'alba sorse; il principio
di un giorno come tanti, giusto un milione di albe fa.
Venne l'alba e portò con se le consuete attività;
sì che in breve ed in silenzio anche quel mattino la barca
fu presto in acqua; e con pochi colpi di remo si lasciò
dietro la piccola cala, cui nessuno volse più uno sguardo.
E siccome il vento tardava ad alzarsi, lasciando ristagnare la
bruma sull'acqua, la barca procedeva a forza di remi.
A bordo si parlava poco: l'angoscia per l'annunciato incontro, ma
soprattutto la fatica, impedivano di concentrare i propri
pensieri; e così era il ritmo della voga ad impadronirsi di
quelle menti. Il tamburo ritmava a poppa, e solo il canto, corale,
li aiutava nel gesto di tirare con forza a sé il remo.
La sagoma dell'isola si faceva via via più vicina,
incombendo grigia nel mezzo della nebbia. L'Eroe fece allora
distribuire ai suoi la cera per tappare le orecchie. Ma per
sé sappiamo cosa fece: come deciso quella notte
ordinò che fosse legato all'albero maestro; e che mai,
seppure implorante, ne fosse slegato finché l'isola non
fosse sparita alla vista.
Sulla nave anche il tamburo tacque; ché, con la cera nelle
orecchie, nessuno avrebbe più udito né strumenti
né canto.
Per dare il ritmo ai rematori, il capo voga si sbracciava dal
castello del timone; e, non senza difficoltà, guidava il
ritmo e la rotta.
Il vento tardava ancora a levarsi. E comunque, governare le vele
senza poter urlare ordini alla ciurma sarebbe comunque stato
difficile e pericoloso. Meglio allora continuare a vogare, al
ritmo che si poteva, sperando solo che tutto finisse al più
presto.
La barca oramai costeggiava l'isola, i cui scogli bianchi ed
aguzzi si ergevano dal mare profondo, troppo vicini al bordo
sinistro.
Una dolce virata verso il largo, ad evitare gli immensi faraglioni
che ora si parano dinnanzi. Poi ancora a sinistra, tenendosi, per
paura delle correnti, non troppo discosti dalla scogliera, di cui,
ora che la nebbia si alzava, si iniziava a scorgere, alta
sull'acqua, la cima.
Senza incontrare alcun pericolo la nave aveva finora bordeggiata
l'isola per un buon tratto, ed ora se ne scorgeva non lungi la
punta estrema; dopo la quale un breve braccio di mare ed un nuovo
promontorio di terraferma, oltre ogni pericolo.
Già si faceva strada in loro l'illusione di aver superata
senza alcun danno anche questa ennesima prova quando, doppiato il
capo di una piccola cala ghiaiosa, la videro arrivare. Inarcando e
distendendo la sua schiena minuta ed abbronzata; slanciando
dinnanzi le braccia e le spalle forti; innalzando ed immergendo la
coda, le cui striature azzurre ed argentee risplendevano al sole
nascente.
I capelli neri, disciolti, le fluttuavano lungo il corpo, per poi
allargarsi e distendersi sul pelo dell'acqua ad ogni immersione.
Guizzava veloce verso di loro, correndo tra la schiuma che col suo
nuoto montava sulle onde.
Partènope non era riuscita a resistere: e se il suo primo
impulso era stato di fuggire alla sinistra imbarcazione, che
sembrava muoversi spinta da forze arcane, la curiosità era
stata più forte; e più si rafforzava ora che
scorgeva, distinta, la figura di un uomo legato al pennone.
Sentiva già di essere attratta da quello, il cui sguardo,
ora che poteva vederlo negli occhi, le rivelava tristezza e paura.
Non più giovane, ma pur forte e massiccio; che faceva
così incatenato? Quali perfidi spiriti governavano quel
legno i cui remi, a tratti scomposti, continuavano ad agitarsi sul
mare? Perché, prigioniero, costui viaggiava legato? Quale
destino gli era stato fissato?
E nel riconoscere l'angoscia negli occhi dell'altro sentì
svanire la propria. Ora sapeva di essere forte; di potere,
volendo, scarcerare quell'infelice; conquistarlo, averlo, portarlo
via da quel guscio di legno in cui viveva prigioniero.
E, forse, liberarlo da paure e tristezza.
Gli si rivolse, e col suo canto più dolce, gli chiese di
restare con lei, tra il mare e gli scogli, a parlargli di
sé; dei suoi desideri, dei pensieri più lievi che
riuscivano a farlo felice.
Ulisse non era preparato alla dolcezza di quella creatura. Fosse
stato strappato con la forza e trascinato nel fondo del mare: alla
violenza, certo, sapeva rispondere; fosse stato abbindolato con
abili chiacchiere: all'astuzia, sapeva contrapporre malizia. Ma a
tènere frasi, le più delicate che gli fossero mai
state rivolte, a quelle no, non sapeva reagire. E rispose
all'invito, con le parole di cui era pure capace, ma che da tanti
anni non pronunciava.
Perché restava legato? Non era lui forse l'Ammiraglio, il
Re, il Comandante su quella sudicia nave? Lo si sciogliesse, e
presto! Lanciava ordini alla ciurma, che non poteva sentirlo.
E più si agitava per liberarsi dalle funi, più gli
altri gli erano addosso, a stringerlo, a contenerlo più
forte.
Con grave imbarazzo degli uomini, e più di tutti di quello
al timone, ché ormai ai remi non vedeva restare che un
piccolo gruppo.
Dal suo castello poteva assistere, impotente, allo spettacolo
offerto dal suo Ammiraglio: sempre più forte era il
trambusto creato da Ulisse che, rosso in volto, si scalmanava e
mordeva, con tutta la ciurma a indaffararglisi attorno. Alcuni dei
remi, abbandonati, penzolavano nell'acqua con azzardo per i pochi
rimasti alla voga; sulla barca la situazione era grave, il
pericolo di naufragio imminente.
E proprio in acque così infide, tra scogli affioranti e
mostri marini!
Ancora una volta, da quando erano salpati da Troja, per
imprevidenza e presunzione, Ulisse li esponeva al pericolo. Ma non
avrebbe invece potuto, sciocco, essendo stato pure avvisato,
tapparsi come gli altri le orecchie; e, magari restarsene sul
fondo della barca, evitando anche la vista di quella sirena come
gli altri, più saggi, facevano?
Quanto più tranquillamente avrebbero potuto affrontare
anche quell'ennesima disgrazia, se una volta di più non si
fosse comportato da sconsiderato, proprio lui, l'Ammiraglio, dal
cui esempio invece la salvezza di tutti dipendeva.
Come nella terra di Circe la maga, da cui provenivano; e nella
quale era caparbiamente voluto restare, nonostante avvertito della
sua perfidia dagli incantesimi che le aveva visto fare, dalle
malizie attuate allo scopo di trattenerlo in sua mano e dividerlo
dai compagni, tramutati per gioco finanche in sudicie bestie.
Tutta l'estate aveva fatto trascorrere invano senza mai volersi
imbarcare, mentre presso la riva nave ed equipaggio restavano,
malgrado lui, pronti a salpare.
Ed avevano finalmente trovato l'ardire, appena l'altr'ieri, di
imporsi, almeno una volta, e minacciarlo, per forzarlo a partire.
Mettendo così a rischio due volte sé stessi: di un
castigo, che inaspettatamente non era venuto; e di affrontare il
mare, nonostante la brutta stagione!
Gli dèi! L'unica era di confidare, da uomini pii, nel loro
volere!
Gli dèi! Ma cosa pretendevano ancora da lui, gli
dèi? L'avevano privato della stima, privato del comando;
ora era legato, in balìa del volere dei suoi.
E Partènope ancora cantava, a lui, a lui solo, dell'enorme
ricchezza che conquista chi sa quando fermarsi, e si accontenta di
quel che Natura può offrire. Chi sa godere di uno sguardo,
di un abbraccio, e non insegue, invece, irragionevoli smanie.
E lui, l'Eroe, sapeva cosa stava cercando? Avrebbe risposto a quel
canto: non era lui a volere fuggire. Suo malgrado lo portavano
via.
Gli dèi! A loro doveva tutta la sua immensa tristezza.
Con l'astuzia aveva vinto una guerra; aveva sconfitta una enorme,
una bella, una forte, un'imprendibile Troja; aveva aperte
all'incontenibile sete di potenza le sconfinate distese d'Oriente;
ed ai commerci le rotte che quella piazzaforte chiudeva, e che
prima di lui solo gli Argonauti avevano solcate. Ma a cosa
è valso tutto il suo genio, se per sé non riesce
nemmeno a trattenere un po' d'amore? A trovare un lembo di terra
(fosse quella, o foss'anche la sua) che l'accolga, in cui
ritrovare quegli anni perduti dietro sogni di altri.
Finché, lentamente, un'idea si fa strada: che siano proprio
l'astuzia, la furbizia, il cinismo di cui è forte, a
negargli ora, quale che fosse, il suo premio? Un castigo divino!
Sì, un castigo all'audacia del suo genio.
O che, al contrario, abbiano forse gradito così tanto la
sua intraprendenza da esibirla ora, suo malgrado, a tutte le Genti
sulle rive del Mare?
Era così, noi oggi lo sappiamo: gli dèi avevano
organizzato per lui un viaggio senza fine, una grande,
interminabile tournée presso tutti i popoli non ancora
civili a mostrare se stesso, per astuzia e cinismo divenuto il
campione dell'Occidente. L'esempio, sul quale un grande disegno,
formulato dagli dèi per quei popoli, si sarebbe pian piano
realizzato.
Era stato quel canto a fargli capire. Ed ora che sapeva, quale
forza avrebbe potuto opporre al volere divino? Affranto, vinto
più dalla rassegnazione che dalla stanchezza,
abbandonò il suo corpo lasciando che fossero i lacci a
sostenerlo al pennone.
Partènope ancora cantava. Da quell'uomo aveva sentito prima
lamenti, poi dolci promesse d'amore, infine urla, invettive contro
la sorte, gli dèi, la sua ciurma. Adesso più nulla,
ed il silenzio era piombato sulla nave. La corrente l'aveva presa,
e la spingeva veloce, lontano. Più forte, più
ritmati, più composti, ora i remi battevano veloci e
portavano quell'uomo lontano da lei.
Stava perdendo fiducia nella forza del suo canto: non aveva
saputo, non aveva avuto amore sufficiente a fermare la nave, a
liberare l'Eroe, a sottrarlo al Destino che sempre più
forte glielo conduceva lontano.
La sua lotta, sappiamo, era contro il volere di tutti gli
dèi; il suo canto contrastava un ambizioso progetto: non
aveva, poverina, alcuna speranza.
Ai suoi teneri, affettuosi richiami, più alcuna promessa
sentiva da lui.
In cuor suo Ulisse pensava di poter ritornare. Se mai fosse
riuscito ad eludere i suoi carcerieri; se un giorno avesse
ottenuto, liberamente, un comando; se mai gli dèi,
appagati, l'avessero congedato da quel ruolo che ora lo spingeva a
Occidente; se, mai ...
Ma ora non aveva più fiato per dirlo, ed affidò ad
un ultimo, lunghissimo, dolce, disperato sguardo quel suo
messaggio d'amore. Partènope lo vide alzare un'ultima volta
la testa. Vide quegli occhi fissarla senza alcuna espressione; e
il canto le si mozzò in gola.
La nave, lo sappiamo, doppiò poco dopo il capo della
Campanella, uscendo per sempre dalla vista di lei. A bordo gli
uomini fecero gran festa, adesso che i momenti peggiori ed il
rischio del naufragio, così presenti fino a pochi istanti
prima, erano solo un ricordo. Levarono i tappi dalle orecchie; e
ballarono e cantarono; mentre il vento finalmente montava a
gonfiare le vele.
Gioia effimera: poco più a meridione sappiamo che stavano,
tremende, Scilla e Cariddi ad attendere quei marinai, per
distruggere quanto ancora restava dell'esercito di Itaca.
Partènope rimase sola. La leggenda narra che lei dal dolore
ne sia morta: dolore per la sorte di quell'uomo, per quell'amore
strappato che non aveva potuto, o saputo salvare.
Di tutti, solo Ulisse fu salvo; e di lui si legge che rimase
aggrappato ad un relitto, in preda al volere del mare ...
Il tempo scorre, la mattina è inoltrata. Mi riscuoto infine
dal mio torpore, e mi ricordo del congresso; e della relazione,
che qualcuno si aspetta venga presentata. Mentre in gran fretta
riprendo la starda verso l'albergo mi resta appena l'occasione per
un ultimo sguardo oltre l'Arco, a cercare sotto il pelo dell'acqua
le forme di quella creatura che, ormai senza vita, immagino le
onde del mare dolcemente scuotano nel tentativo di risvegliare ...
continua:
4 L'amore ed il mare (2a parte)
torna a:
Indice
|
|