4 L'amore ed il mare (2a parte)
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... case, vicoli e palazzi,
perché Lei ama i colori ...


Riccardo Cocciante, "Margherita", 1976



Lo splendido corpo che fu della Sirena andava alla deriva; sospinto dalle onde assumeva disarticolate figure. Il vento e la corrente che, doppiata l'estremità dell'isola, si insinuano nel Golfo, lo spingevano lentamente verso la terra ferma.

Quindici miglia separano Capri dall'opposta sponda. Un piccolo braccio di mare, che ora attraversiamo a bordo di un traghetto. Un giorno è trascorso e stamani, terminato il convegno ed imbarcato tutto l'armamentario, torniamo verso casa.
Costeggiata l'isola fino alla sua punta estrema, la corrente che dal mare aperto entra nel Golfo ci prende e, come forse fu per il corpo di Partènope, ci spinge verso Napoli.
Sporti verso il mare sul ponte del traghetto, il collega milanese protesta con me per la tariffa pagata: per trasbordare i computer e le altre attrezzature il marinaio ci ha fatto un biglietto differente da quello dell'andata. Oggi abbiamo pagato di meno, ma lui non è soddisfatto: l'incertezza della tariffa, l'ambiguità della norma lo sconcertano. Io, distratto, gli do ragione ma cambio discorso: potrei mai spiegargli quanto sia vitale per un Napoletano la trattativa, l'esercizio della discrezionalità? Potrebbe mai capirmi?
    E riuscirò anch'io mai a capire dov'è che la giusta tolleranza per qualsiasi comportamento, per qualsiasi convinzione, la filosofia del pur'isso hadd'a campà diventa indifferenza verso chi si impone con l'abuso e l'illegalità?
Intanto, oltre la balaustra, vedo Posillipo da un lato e la Campanella dall'altro richiudere lentamente l'abbraccio dietro le nostre spalle; e ci tuffiamo verso Napoli.
Un piccolo braccio di mare, dicevo.
Ma una enorme distanza divide le due rive: tra la villa di Augusto e di Tiberio sull'isola e la residenza d'esilio di Romolo Augustolo (nella villa che fu di Lucullo e dove ora sorge il castel dell'Ovo) si chiude, ad esempio, tutto il corso dell'Impero di Roma.
Di più: sono racchiusi tra le due sponde gli opposti estremi con cui la Natura stessa seppe esprimersi. I silenzi isolani ed il frastuono della città evocano le immagini di questi due diversi caratteri: la saggia fermezza del calcare e l'estro fragoroso del tufo.

Di calcare è l'isola, candida, tutta spigoli e rocce aguzze. Il calcare nasce nel mare; sulla sua superficie, dove acqua ed aria si mescolano in schiuma, e dove le creature più minuscole convengono per assistere a quell'unione, lì il calcare si forma; poi, in lenti fiocchi, nevica al fondo.
Un'enorme pressione lo compatta sui fondali trasformandolo in roccia; e forze ancor più possenti lo fanno pian piano riemergere, a formare vallate e bianche montagne di marmo, isole, colline, scogliere.
Di tufo è invece la terra ferma, schiuma di lava solidificata in roccia. Il tufo nasce con l'eruzione di un vulcano; giallo o grigio, spugnoso e friabile, a batterlo si sgretola comm' a 'na pantuosca 'e puzzolana.
Tutta Napoli è di tufo: Napoli è un dono di Vulcano. Certo un dono prezioso, fatto in una sola notte per la sua moglie, Afrodìte; un dono di fragore e di fuoco, una notte di fiamme e di scòppi.
Come fu che avvenne? Eccone il racconto.


Il dono di Vulcano

Dalla nascita del pianeta, impastando la roccia bianca di calcare, la Natura aveva forgiato le terre emerse ed in milioni di anni aveva eretto monti e creato vallate; in lunga colonna vertebrale l'aveva distesa nel mezzo del Mediterraneo a formare l'Appennino, solida e paziente schiena della nostra penisola; e sui versanti ora scogliere ora cale sabbiose degradavano al mare. Il vento, il mare, gli elementi ed il tempo (per temperamento, mai decisi a dichiarar conclusa l'opera) modellavano la roccia, senza sosta, in un continuo e paziente gioco di perfezionismo, verso forme ideali.

Per descrivere il lavoro paziente ed amorevole di Madre Natura vorrei consegnarvi l'immagine di Assunta. Come io la vedo, oltre il bancone e la parete a vetri, stivali e càmice bianco, nel mezzo del candido laboratorio del suo caseificio. Le braccia bianche, ché il troppo lavoro non le consente di abbronzare, immerse nel mastello della pasta filante; dal quale alza un attimo lo sguardo verso di me per un saluto, un bianco sorriso nel quale socchiude appena un poco anche gli occhi, di un pallido verde. Sulla testa, per igiene, la cuffietta bianca a stento trattiene quasi tutti i suoi riccioli neri.
E, abbassato subito lo sguardo, eccola di nuovo al lavoro, e tirare su dal mastello una massa rugosa e fumante, fluida e bianca; da cui, tra le sue mani, rigirandola e carezzandola col fresco latticello, ricava pian piano, liscia e tonda, una piccola mozzarella; ancora legata per un lembo via via più sottile alla pasta informe.
E chissà quanto Assunta se la terrebbe tra le mani, carezzandola e rigirandola, se non fosse il marito, di fronte a lei tra il mastello e la vasca, a mozzarla con una veloce mossa delle dita; per poi gettare quella nuova nata con le altre, a galleggiare e raffreddare nella vasca del latticello.

Nelle geografie formate dal calcare, una insenatura vasta e profonda interrompeva la linea di costa, lasciando il mare insinuarsi tra scogliere ora erte e frastagliate, ora morbide e tonde; tra seni e spiagge, di ghiaia o di candida sabbia.
Una rada come altre, più piccole o più ampie, che con eguale copione ma con svariate forme, tutte unicamente splendide, Natura aveva modellate, e delle quali andava fiera.

Il mare di cui parlo si estendeva dagli Aurùnci, protési nell'acqua col promontorio dove ora sorge il castello di Gaeta, fino alla catena del Partènio, che si allunga con i monti Lattari sino alla punta della Campanella, estremo lembo della penisola di Sorrento; a baluardo ne era già posta l'isola di Capri; bagnava luoghi oggi asciutti, e molto distanti dalla costa. Di questa baia, da millenni, non esiste più traccia: la terra più fertile del mondo ne ha preso il posto; le sue scogliere, dove abitava il corallo, sono oggi colline e montagne, ed i paesi che vi sorgono non hanno alcun ricordo di una loro antica e possibile vocazione marinara. Lo avremmo chiamato (forse si, perché no?) Golfo di Pignatàro.
    Sulle acque del Golfo di Pignatàro
    non ci vai in barca: né a voga, né e vela;
    non nuota la triglia né il calamaro,
    ma ci passeggia una bufola nera!
Quella insenatura, come ho detto, scomparve; difatti Vulcano volle donarci Napoli, forgiandola col fuoco proprio nel mezzo di quel vasto mare. E lo fece in una sola notte, sorprendendo in questo gli dèi, invidiosi che sulla terra potesse sorgere una tale bellezza.
Gli dèi, si sa, erano vanitosi e superficiali come bambini viziati con una gran paura di crescere. Non così Vulcano che, invece, era dolce e sensibile; ma, a dispetto della sua indole, appariva goffo e sgraziato, un po' bruttino e, pare, anche molto peloso.
Consapevole del suo aspetto, era timidissimo; e piuttosto che trascorrere, come gli altri suoi fratelli, il suo tempo in feste e corteggiamenti, si rintanava in un suo laboratorio segreto, dove sfogava la sua energia costruendo con le mani e con l'ingegno oggetti d'ogni genere, tutti magnifici, perfetti ed ammirevoli.
Viveva, così, solitario, schivando ogni rapporto con gli altri, non perché non avesse bisogno del loro contatto, ma, piuttosto, per la paura di una qualche delusione. E nei suoi sogni, alla più bella delle dee, alla candida e graziosa Afrodìte, avrebbe voluto dichiarare il suo amore, senza mai averne, lui così schivo, così brutto, così goffo, il coraggio.
Come posso allora narrare tutta la sua gioia, l'incontenibile ed esplosiva contentezza che lo afferrò, quando fu la stessa Afrodìte a confidarsi, a raccontargli dell'amore per lui, di quanto i suoi molti sguardi e le rare parole l'avessero commossa, di come si incantava delle mille cose che gli vedeva costruire, di come, insomma, tutti i suoi pensieri fossero per lui, ed insieme a lui, dividendo il suo segreto rifugio, avrebbe voluto vivere?
Quella sera l'amore li prese, e fu impetuoso; la loro unione tenera ed intensa.
Dopo una tale inattesa e profonda emozione, quale dono di nozze Vulcano poteva offrire al suo amore Afrodìte, quale oggetto, capace di legarla a lui per sempre, se non il più bello che la sua arte potesse produrre e che la terra potesse contenere? Quella notte stessa, si mise a prepararlo.
Napoli, come Venere, nacque dunque dal mare, in una notte di prodìgi. E fu una immensa sinfonìa di colori, fontane e zampilli di lava, e luci accecanti nel cielo stellato, un crescendo di suoni come di un'orchestra di percussionisti, ad accompagnare le note di una fantastica tarantella.
    Sorsero colline fatte a cratère,
    una sull'altra, a perdita d'occhio;
    emersero monti a forma di còno
    si aprirono valli, e laghi e vulcani ...

    Nacque anche un'isola fatta a ciambella,
    con dentro il porto già fabbricato.

Chi, dall'altura più alta, là dove sorge l'Eremo, per il viottolo che fiancheggia le celle e gli orti dei Camaldolesi giunga tra i lecci al margine della terrazza, affacciandosi dalla balaustra vedrà ancor'oggi sotto di sé lo spettacolo di quei crateri di tufo affastellarsi a ridosso gli uni degli altri, piccoli, grandi, alti o incompleti, come bolle che, risalite alla superficie di un'enorme polenta, siano poi lì scoppiate, e rimaste d'un tratto gelate.
Di quella notte, in cui la lava correva sull'acqua, e luci, e scòppi, ed il fragore del tuono riempivano il cielo, di quella notte tutti noi portiamo un inconscio ricordo.
Ancor'oggi, a Napoli, tutti gli anni, un certo giorno (anzi, in una certa notte, sul finire dell'estate) si onora il Vulcano e si commemora la nascita dal mare. E' la notte di Piedigrótta, la notte dei fuochi a mare.


Fuóchi a mmare (e fritto misto)

In quella sera, per noi che avevamo la fortuna di abitare un appartamento al sesto piano proprio sotto la mole del castel Sant'Elmo, e per di più con un terrazzo di quasi dieci metri quadri, era naturale riempire la casa di parenti ed amici.
Quando la calura dell'estate va mitigando ma ancora è piacevole, dopo il calare del sole, indugiare sotto le stelle, in quella sera ogni finestra, ogni balcone come palco del San Carlo si popolava di sedie e poltroncine di vimini, di signore sedute e inventagliate, di uomini col binocolo. E come sempre per noi lo spettacolo, in attesa di quello ufficiale, era sbirciare gli altri spettatori.
Il semicerchio del Golfo è la càvea naturale di un immenso teatro greco; tra il mare ed il cielo innumerevoli finestre, balconi, terrazze sono altrettanti posti di platea o di loggione; e palchi, ornati di geraneo o di azalea.
La città, come alla "prima" di un grande evento, vestiva allora il suo abito di gala: mille piccole lampadine a segnare i contorni di strade, di piazze; sul Posillipo vedevi disegnati di luminarie i profili dei palazzi e delle chiese. Le navi in porto sfoggiavano il gran pavese, ed il Vesuvio le imitava, con la sua fila di luci lungo la funicolare; in mare aperto, mille e mille lampàre formavano strane costellazioni, più belle e lucenti di quelle del cielo.

Per la comodità di poter mangiare senza perdere nulla dello spettacolo, e per poter sfamare tutti senza dover cucinare, in anticipo (ma non tanto prima, perché non si freddasse tutto) portavamo a casa dalla pizzeria vicina, quella di fronte alla stazione della funicolare, caldissimi involti di pizze e cartocci di "fritto napoletano": crucchè e paste crisciùte, pall'e riso, supplì, fiorilli e scagliuozzi 'e polenta ... (e qui mi fermo, ché già mi torna l'acquolina!).
    Chi crede che l'idea di poter mangiare in fretta sia partorita dalla cultura anglosassone, e chi pensa che, avendo poco tempo, sia inevitabile doversi nutrire male, si documenti sulla varietà di cibi pronti offerti nelle friggitorìe, o giri per Napoli all'ora del lunch, per vedere cosa sia il vero mediterranean fast-food.
    Pranzare tardi, e fare il riposino d'a contr'ora era un tempo a Napoli privilegio della nobiltà, e l'abitudine si è diffusa con l'avanzare del "terziario". Invece, la gente 'e fatica, ad esempio sui cantieri edili, mangia a mezzogiorno in punto; in genere gli avanzi del pranzo vero fatto la sera, infilati in mezzo al pane.
    E per le strade, innumerevoli pizzerie sfornano di continuo per chi non ha tempo, e preferisce consumare in fretta una pizza piegata in quattro ed avvolta, rovente, nella carta gialla; così i clienti rimangono in piedi sulla soglia, piegati anch'essi in due, per evitare che l'olio coli sulla giacca.
    E la dieta può essere la più varia: frittat'e maccarùne, mozzarelle, e quante mai verdure, tutte confezionate apposta per il take-away.
    Per esigenza di chi, anche a Napoli, i musei chiudano al pomeriggio, è una cosa che non ho ancora capito. Ho sempre in mente di un custode al San Martino che a mezzogiorno, seduto su 'na seggia 'e paglia col suo sfilatino co 'e friariélli e 'nu quartino 'e vino, dinnanzi a un Caravaggio ci diceva: «favurìte
Quelle sere era festa, tutta una corsa dal vassoio delle pizze alla finestra per vedere i fuóchi: «per carità, bambini, fuori al terrazzo, che sennò cola l'olio per tutta la casa!»; e poi di nuovo, quando la tensione dello spettacolo lo permetteva, di nuovo ad affondare le mani già unte nel cartoccio della friggitoria, e, cercando a tastoni, ancora una volta dinnanzi al Dubbio fondamentale dell'Umanità: l'impossibile scelta tra la pienezza di sapore di un minuscolo crocchè e l'abbondanza insipida di una morbida pasta crisciùta.
Mentre fuori alla finestra, su un nero fondale, in perfetto silenzio, una gigantesca anemone scarlatta distendeva lentamente i suoi luminosi tentacoli. Ora si ripiega, fino ad incontrare il mare, dove piano si tuffa, sparendo e spengendosi a un tratto.
Poi, ma molto dopo, arriva il bòtto! E corre e rimbalza tra Vesuvio e Posillipo, avanti e indietro a moltiplicarsi in mille bòtti finché, smorzandolo poco a poco, il Golfo a malincuore lo lascia andar via.

Una cascata di fili azzurri riempie ora lo sguardo; no, sono verdi; poi si tingono di rosso. Cadendo si cambiano d'abito queste fiammelle; e la loro corsa è breve, ma in quella fanno a tempo ad osservare, dal centro del Golfo, una città raccolta intorno al suo mare, come una famiglia al caminetto.
    Ora in rapida sequenza
    verdi e gialli e bianchi scòppi
    si rincorrono nel cielo.

    Ed è tutto un gran fragore,
    è un abbaglio luccicante;
    nelle case a luci spente,
    sopra i muri è gioco d'ombre.

I fuóchi, sempre diversi, si succedono senza un attimo di sosta; e stai fantasticando sulla figura che in cielo si compone quando, prima che quella svanisca, un'altra diversa si forma. Quattro fuochisti sulle zattere al largo si alternano a condurre lo spettacolo, discorrendo tra loro con parole di luce, colore e frastuono, intessendo un discorso o svolgendo la trama di un fantasioso racconto.
E fu in una di quelle sere che d'un tratto, contro la luce sfolgorante dei fuochi nel riquadro della finestra, con le quattro zampe grottescamente divaricate, in una nuvola di carte 'nzivate il tavolo di sala schiantò a terra, sotto il peso di una piramide di cugini.


Don Mimì

'On Mimì, io me lo ricordo: già vecchio, calvo e ossuto; e lo vedevo dal balcone alla solita ora salire curvo, sotto il sole, per i gradi del Petraio, la sua borsa cogli attrezzi a tracolla. Eccolo arrivare a casa nostra a completare, col lavoro di "pulitura", la riparazione di quell'enorme tavolo che già nei giorni precedenti aveva accunciato.
Se quell'appellativo di "don" l'avesse ottenuto per il rispetto che si deve all'età, o perché a suo tempo fosse stato "mastro" di una nutrita bottega, io non l'ho saputo; certo che addosso gli stonava, lui così minuto, così paziente.
E di pazienza ne aveva proprio tanta, per passare delle ore a strusciare, con gesto uniforme, la pezzuola con spirito e gomma arabica sulla superficie liscia e uguale del mogano.
Ma forse, a lui, non doveva apparire lavoro così noioso come a me sembrava; giacché, a sollecitarlo a parlare, allora scoprivi un meraviglioso, microscopico mondo, racchiuso in quel piano di legno; e che a lui, che sapeva guardarlo, si mostrava pieno di mille sorprese.
Qui un piccolo nodo, lì una rigatura più larga delle altre; le venature del legno gli raccontavano dei tanti eventi che la pianta ed il mobile avevano vissuti; come i minuscoli, ma per ciascuno importanti, avvenimenti della vita.

E per la casa si spandeva dolce, inebriante, quel profumo di spirito; come nei giorni prima quello acre della colla di pesce squagliata sul fornello; quando, con nuovi incastri e tinò (mai chiodi o viti, ché il legno ne soffrirebbe), il tavolo riprendeva la sua forma, e sergenti e morsetti lo trattenevano, finché la colla finiva la sua presa.
E da quegli odori sembrava di essere nella sua bottega, allineata con tante altre di mobilieri, intagliatori, carpentieri e mast' d'ascia per la ripida discesa della 'nfrascata.
Botteghe ugualmente piene di alacre ingegno, quanto nel laboratorio del dio Vulcano.

Già! Vulcano. Riprendiamo allora il racconto di quella notte, quella delle nozze con Afrodìte.
Il mare, costretto a ritirarsi per l'inaspettato evento, accettò per parte sua il dono, e subito si adagiò nel nuovo Golfo che, tondo e caldo come un abbraccio, il dio artigiano aveva racchiuso tra Vesuvio e Posillipo. E si distese di buon grado nelle cale, tra scogli e promontori, sulle spiagge, negli anfratti di tufo.

Non così i primitivi abitanti di quella costa oramai asciutta; giacché anche tra gli uomini ci sono figli della roccia di calcare a cui piace il freddo rigore del bianco cristallo, e non possono apprezzare una terra inquieta.
Fosse per loro, il Golfo appena creato, certo bello, sublime, avvenente, si sarebbe proclamato "parco naturale vulcanico"
    ... per venirci nei giorni di festa,
    con la moglie, i figli e la cesta
    a mangiare, ammirare, esclamare;

    ma tornando alla sera di corsa
    alle solide case di roccia,
    saldamente ancorate al calcare ...

Soltanto un esiguo gruppo di umani, fatti ovviamente di pasta diversa, si ritrovarono secoli appresso in riva a quel mare, sulla cima di un piccolo cono, a fondarvi la loro Città.
Il Monte Échia restava a ridosso tra il mare e la terra; dalla notte del prodigio era muto e oramai spento; sì che l'acqua, non avendo timore, lo lambiva, lo bagnava, lo erodeva. E l'aveva a tal punto intaccato, che dell'originario cratere solo una piccola falce ne restava; come fosse, immaginate, una benevola mano socchiusa a conca, adagiata sulla riva del Golfo.
E il mare le entrava nel palmo, creando un piccolo, difeso porticciolo.
Un fiume scorreva poco lontano; un rivo oggi coperto da così tanto tempo, che nessuno ricorda neppure il suo nome.
La sua cresta più alta prese il nome di Pizzo Falcone; un suo dito, proteso nel mare, lo scoglio di Megàride.
Lungo il suo fianco più ripido era una costa sabbiosa dominata dalla parete gialla del tufo e da radi alberi antichi, su cui si aprivano tetre ed inesplorate grotte, da cui respirava l'antico vulcano: e che, per i piatti scogli spugnosi affioranti da mare fu chiamata spiaggia del Chiatamóne.


Il mito di Orfèo

Questi luoghi sono rimasti da allora immutati; e li riconosco nel rivederli dal traghetto che si avvia ad entrare nel porto; solo coperti, a differenza di allora, da case e palazzi, eretti ad ospitare i figli e nipoti di quel popolo antico, di quei figli del tufo.
Proprio lì, davanti alla nostra prua, dove era il litorale del Chiatamóne, quel triste mattino di ottobre spiaggiò il corpo della bella Partènope. Le donne, al vederlo dall'alto del Pizzo Falcone, se l'additarono l'un l'altra; e correndo per le scalinate, giù verso il mare, a gran voce avvisavano i pescatori ancora nel porto. Corsero tutti alla spiaggia: quella povera gente non sapeva più darsi pace. E di loro i più giovani raccontavano di averla udita appena poche ore prima, rientrando dopo una notte di pesca, cantare a una nave da guerra avvistata incrociare all'imboccatura del Golfo, una nave che sembrava Fenicia.
E allora, abbandonandosi al lutto, si rammentavano a vicenda dei giochi che da bambina faceva nell'acqua, di come nuotasse veloce, più delle loro larghe barche da pesca; dell'allegria che a tutti donava, a vederla arrivare nel fascio di luce delle loro lampàre; e di quando si univa, ora che era più grande, alle feste di nozze, restando a nuotare felice con loro, fino a notte, mentre gli sposi danzavano alla luce dei fuochi.
E di quanto l'avessero amata.
    Non stupisca che tutto quel popolo fosse così familiare con le creature che vivevano sull'isola, e di come fossero tutti immuni al canto di quelle: come ho detto erano figli del tufo. La gente che abita il vulcano è preparata ad accettare come un dono qualsiasi evento, buono o cattivo, venga dalla Natura; e più ancora, è intimamente convinta che in vita ogni scelta, seppur necessaria, ha sempre due facce; e se apre qualche nuova occasione, dall'altra porta comunque con sé una rinuncia. Perciò, quegli umani, non perdevano il senno, pure a sentirsi cantare di quante possibili cose non erano state a ciascuno concesse.
    Non si può riacciuffare il proprio passato.
Sappiamo che a Partènope tributarono grandi onori. Le dedicarono la loro Città, che da allora portò il suo nome; e il sepolcro per lei costruito, ancora fino ai tempi romani si poteva vedere, sulla riva del mare.
Ma più di tutti era un vecchio a piangerla come fosse sua figlia. Ormai solo, non più adatto al lavoro di bordo, s'era fatto col legno e con nervi di bue una cetra, non so, una lira, o forse una rozza chitarra.
Uno strumento, con cui si accompagnava nel canto, e nell'uso del quale era diventato assai bravo, tanto che la stessa Sirena veniva a sentirlo, ad unirsi a lui. Ed il canto, nelle sere stellate, si spandeva nel Golfo, mentre lì, sulla punta dello scoglio di tufo proteso nel mare, lui seduto e l'altra distesa sull'acqua, si scambiavano accordi, parole, canzoni.
Limpida e grave la voce di lui, carezzevole e acuta quella di lei. Le loro tenui, dolci canzoni, che parlano tutte di irrealizzabili amori, tramandate di bocca in orecchio, qui si cantano ancora.

Quando, secoli dopo, i Greci approdarono qui a costruire nel piano la Nuova Città, ascoltarono tra le altre la storia di un vecchio e una cetra, che suonava per far cantare le sirene, e con una di quelle intesseva duetti. E nella folta sequela di storie e leggende che da quegli antichi si tramandano, aggiunsero anche questa, il mito del vecchio di nome Orfèo, che gareggiava nel canto con le creature del mare.

Infine, per completare il racconto di quello che so circa il dono che ci fece Vulcano, mi resta ancora poco da dire.
Delle rive del golfo di Pignatàro restano oggi tonde colline di calcare in largo circolo ad attorniare le alture vulcaniche; e la vallata, che tra le une e le altre la terra ha riempito. Su di esse il tempo ha creato una sottile patina di vegetazione, come la scorza, che il fumo inspessisce sulle fresche provole di bufala, bianche e umide di latte.
E così, venendo da Ravello per il valico di Chiùnzi, oltre la grande e bonaria mole dei due vulcani, il Somma ed il Vesùvio, l'uno dentro l'altro affastellati, allineate al bordo dell'immenso vassoio a perdita d'occhio si vedono le provole. Ed al centro, enorme, la Città.

Per costruirla, da tempo immemorabile si estrae il tufo dalle cave per farne mattoni; e più si estrae, più si lavora, più si costruisce, più la Città si espande a raggiungere quelle cave. E allora, chiuse quelle vecchie, se ne aprono di nuove più lontane, ma in breve anche quelle sono raggiunte. E così, da secoli e secoli, la città si espande; e mentre prende forme e volumi all'esterno, sotto la terra altrettanto volume scompare, sì che si può dire le Napoli siano due: una sotto i raggi del sole, l'altra sommersa, fatta di cave e caverne, cunicoli e grotte, naturali o scavate, ma tutte tra loro connesse a formare una città segreta, esoterica, magica, di cui né mappe né cartine descrivono la forma.
Una città sotterranea, connessa con quella in superficie da pozzi, scale e condotte attraverso cui, dal mondo magico, salivano al nostro di notte dèmoni o munaciélli; o, al contrario, nel quale, sempre nottetempo, donne e uomici che in clausura avevano dedicato la propria vita al sacro, scendevano per incontri profani nelle comuni dispense e cantine...

Due città, dicevo, entrambe fatte interamente di tufo.
Ma non basta il solo tufo a edificare. Per tenerlo insieme occorre la calce, che si produce cuocendo il calcare. Così, per soddisfare la crescita della Città, non vi è collina, di quelle che le stanno a corona, che non sfoggi ora una candida cava, come altrettanti profondi, avidi morsi ad intaccare le provole messe ad affumicare.




Il traghetto sta attraccando al molo; sbarchiamo. Un facchino ci aiuta a scaricare tutti gli attrezzi. Recuperata la macchina che era al parcheggio do una mano ai colleghi a stivarli per bene.
Ci separiamo: prendiamo direzioni opposte. Loro verso l'autostrada, diretti a Milano, mentre io ho già un posto prenotato sul Rapido per Pisa che parte dalla stazione di Mergellina. Li saluto; ci rivedremo a Milano.
Ma non prima di qualche settimana: dovrò prima andare in America per visitare un impianto.

Seguo con gli occhi l'auto che si allontana. Nell'attesa per il taxi, mi ritrovo ad essere parte di una coda che si scuote convulsa. Ciascuno difende le proprie aspettative; incurante non solo dei diritti, ma persino della presenza altrui.
Dietro di me si agita una signora, che dall'aspetto avrei potuto altrimenti definire distinta e beneducata. Magra, capelli bianchi, benvestita, con gonna nera e camicetta d'altri tempi col collo di pizzo; sulle sue labbra alcuni grani di zucchero denunciano una recente colazione a base di "graffa" fritta e, sicuramente, caffé. Si sbraccia e urla, per attirare su di sé l'attenzione di un giovane che, senza averne alcun apparente diritto, si è messo sulla strada, attribendosi l'incarico di mediatore tra la domanda di trasporto (incarnata dalla massa umana di cui mi sento un infiltrato) e l'offerta, costituita dalle vetture bianche che arrivano con regolarità. E che con altrettanta regolarità potrebbero imbarcare e ripartire, se non fosse per la confusa, scomposta, disordinata commedia sceneggiata che si svolge tutt'attorno a me, sul marciapiede e sulla strada, nella corsia riservata.
La coda si dimena scomposta, come fosse parte incontrollata di un corpo smembrato e agonizzante.

Sono a Napoli da pochi minuti, e sono già a chiedermi se potrei mai riabituarmi a viverci.
Qualcuno scrisse che a Napoli, l'Armonia è andata Perduta.
Forse è vero. Forse Napoli è terreno di scontro di differenti popolazioni che la abitano e che quotidianamente si incrociano sullo stesso terreno senza mai veramente incontarsi.

Decido, per oggi, di disertare questa guerra.

Abbandono quindi il mio posto di combattimento e scelgo di raggiungere a piedi la mia meta.
Non è affatto vicina. Ma io mi sento pieno di energia. Come era per quel leggendario gigante (di cui adesso non mi torna il nome), figlio della Madre Terra, che colpito ripetutamente da Ercole ed atterrato, dalla Terra sua Madre riceveva nuovo vigore, così mi sento io stamattina, per aver poggiato ancora una volta i piedi su questo selciato.
Per un attimo però lo slancio si frena, e resto interdetto, sul ciglio della strada, ad fronteggiare da solo la fiumana di macchine che mi scorre davanti. Poi, mi ci tuffo deciso; per miracolo, come davanti a Mosè fece il Mar Rosso, le auto si fermano, il traffico si apre a lasciarmi passare. Ma dietro di me, dopo appena un momento, non trovi più traccia del varco.
A Napoli è così, me ne ricordo subito: non ci sono rassicuranti certezze. La stessa strategia che governò i decenni della "guerra fredda" tra le opposte Potenze sui due fronti della Cortina di Ferro, si applica a Napoli in ogni istante: la "deterrenza".
E se non sei disposto a mettere in discussione tutto te stesso, nemmeno la strada puoi attraversare!

La Città mi prende, mi inghiotte. Nel frastuono con cui mi accoglie ognuno afferma, soprattutto a sé stesso, la propria esistenza. Ed io, e tutti i miei pensieri, ne sono già parte.
Pensando alla perdita dell'Armonia, di colpo ho ricordato un vecchio proverbio, che ripeteva spesso una mia vecchia prozia: «'a Casa nun perde: annascónne!».
L'Armonia della Città, per me, è incarnata da Partènope, che nel suo corpo di sirena racchiude e sintetizza Ragione ed Amore.

Non è più alla stazione che sto andando, ma a rivedere il centro antico: ho in testa così tante domande!
Di preciso, quegli antichi, dove nascosero il corpo della Sirena? Dove riposa oggi Partènope? Cosa resta di quanto avvenne quel giorno?

Voglio condurre una mia, personale ricerca.



continua: 5 Napoli
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